“Un grande compito mi è stato assegnato”, “credo completamente nella nostra tecnologia”. Questi sono alcuni passaggi della lettera di commiato, scritta alla sua famiglia da Jurij Gagarin due giorni prima del volo sulla navicella Vostok. La missiva, appena desecretata, fu letta dalla moglie Valentina alcuni anni dopo, quando il primo cosmonauta nella storia dell’umanità rimase ucciso in un incidente aereo, il 27 marzo 1968. “Se qualcosa dovesse succedere – scrive Gagarin – devi sapere tutto. Ho vissuto in maniera onesta. Da quando da ragazzo lessi le parole di V.P.Chkalov di essere sempre il primo ho cercato di esserlo fino alla fine. Voglio dedicare questo volo alla gente della nostra nuova società, del comunismo”. Il cosmonauta dedica alcuni pensieri anche ai suoi cari, invitando la moglie a farsi un’altra vita e a crescere le loro due bambine come si conviene.
La Russia ricorda in queste settimane con varie manifestazioni il cinquantesimo anniversario della prima missione di un uomo nello spazio. Articoli sui giornali, incontri-studio e trasmissioni televisive arricchiscono l’evento. Lo scrittore Anton Pervushkin racconta i retroscena del volo di Gagarin nel libro “I 108 minuti che hanno cambiato il mondo”. Tanti sono i particolari inediti, raccolti da documenti finora segreti. Nascondere gli errori compiuti durante la missione è stato uno degli obiettivi principali dei sovietici alla stessa strega di non rendere pubblici i nomi degli ingegneri-costruttori e le vere caratteristiche tecniche sia della navicella che del razzo vettore. Allora Mosca e Washington lottavano per il primato mondiale e nessuno voleva regalare vantaggi. La potente macchina della “disinformatsija” sovietica riuscì anche a produrre pubblicazioni, che erano piene di false informazioni, ad esempio l’atterraggio sarebbe avvenuto nell’Estremo oriente del Paese.
Il rientro di Gagarin sulla Terra fu certamente assai avventuroso. I calcoli degli specialisti di traiettorie balistiche si rivelarono errati. Il cosmonauta fu sollevato quando vide il fiume Volga e si rese conto solo in quel momento di stare terminando la propria missione in Russia e non chissà dove. Secondo i piani sarebbe dovuto atterrare nella regione di Samara. Ma una volta in volo i sovietici ridefinirono il punto di arrivo 110 chilometri a sud di Volgograd, dove le autorità erano in allerta. Gagarin, invece, finì da tutt’altra parte, vicino alla città di Engels nella regione di Saratov. La boscaiola Anna Takhtarova e la sua nipotina, Rita, si presero un bel spavento quando si videro comparire davanti un uomo con indosso una tuta strana. “Sono sovietico”, gridò loro il cosmonauta. La popolazione era atterrita dalla propaganda che per radio aveva raccontato per mesi delle missioni degli aerei spia americani.
Il massimo della falsificazione avvenne a Parigi alcuni mesi dopo quando i sovietici dovettero registrare l’impresa presso la Federazione aeronautica internazionale. Le discussioni durarono ore. Alla fine il giudice Ivan Borisenko dovette testimoniare che si trovava sul luogo di atterraggio della navicella. Dove fosse Gagarin, se dentro o fuori il mezzo, non fu mai chiarito. In realtà il cosmonauta si era catapultato a sette chilometri d’altezza dopo aver sorvolato il mar Mediterraneo ad una distanza di 130 chilometri.
La censura fu strettissima sui nomi degli ingegneri, che avevano permesso la realizzazione del volo. Di loro furono pubblicate solo le iniziali tanto che la “mente” del programma spaziale, Serghej Koroliov, quasi si offese.
Per gli americani l’impresa di Gagarin fu una vera doccia gelata e dimostrò che gli avversari della Guerra Fredda non andavano affatto sottovalutati: con tecnologie semplici e tanto coraggio erano riusciti in qualcosa di epocale. Seguirono anni assai nervosi in cui la Casa bianca finanziò copiosamente i programmi della Nasa, che si rifece soltanto nel 1969 con l’allunaggio sulla Luna.
Giuseppe D’Amato
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