Appena avuta la certezza che l’arabo ucciso ad Abbottabad era Osama Bin Laden il presidente Obama ha subito telefonato a Mosca prima di darne notizia in un discorso televisivo al Paese. L’11 settembre 2001 era stato Vladimir Putin, il primo leader straniero, a contattare George Bush, rinchiuso sull’Air One in volo per motivi di sicurezza. Il favore è stato ricambiato adesso, nove anni e sette mesi dopo.
Le due superpotenze del Ventesimo secolo sono stati infatti i Paesi maggiormente colpiti dal terrorismo internazionale. Il Cremlino aveva avvertito per tempo la Casa bianca negli anni Novanta che la jihad islamica, armata precedentemente in funzione anti-sovietica, era sfuggita di mano ai finanziatori occidentali. Fu così l’ex Kgb a dare a Washington le coordinate di dove si trovassero i campi di addestramento dei terroristi in Afghanistan nell’estate del 1998, pochi giorni dopo che Al Qaida aveva fatto esplodere in un attentato le ambasciate Usa in Africa orientale. Gli Stati Uniti si fidavano, però, allora molto di più degli alleati regionali, i pakistani, che degli ex avversari della Guerra Fredda.
I russi in realtà non hanno mai distolto la loro attenzione dall’Afghanistan anche dopo il ritiro del febbraio 1989. Quando il 27 settembre 1996 i talebani presero Kabul Mosca organizzò una riunione d’emergenza delle repubbliche ex sovietiche asiatiche in cui avvertì gli ex fratelli del pericolo. Seguirono ripetute campagne armate degli islamisti nel cuore del continente, mentre Bin Laden continuava l’invio di suoi uomini in Cecenia, visitata in precedenza dal “numero due” di Al Qaida l’egiziano al Zawahiri.
Oggi la strategia di Barack Obama è di ritirare rapidamente le truppe Usa dai vari teatri di guerra per risparmiare preziosi dollari necessari a ripianare l’immenso debito statale ereditato dall’Amministrazione Bush. Solo così l’America potrà rispondere in un futuro prossimo alla sfida cinese e della globalizzazione in generale. Che siano ora gli alleati vecchi e nuovi ad iniziare a cavarsela da soli, si pensa a Washington. Emblematica è l’uscita di scena americana alla chetichella dal conflitto in Libia.
La morte di Bin Laden segna uno spartiacque nella politica internazionale. Il capo dei terroristi è stato liquidato e i suoi seguaci “arabi” nella regione sono in rotta. “Giustizia” per i cittadini americani, morti l’11 settembre, è stata fatta. L’“exit strategy” dall’Afghanistan, resa nota al vertice Nato di Lisbona lo scorso autunno, può pertanto iniziare come previsto nel 2014.
La telefonata di Obama a Dmitrij Medvedev, buttato giù dal letto prima dell’alba, non è solo un giusto ricambio di cortesie ricevute ma anche l’annuncio del prossimo passaggio di consegne. Fra il 2011 ed il 2014 si tenterà di trovare una soluzione politica per l’Afghanistan, poi gli occidentali se ne andranno. La “patata bollente” tornerà così nelle mani del Cremlino. Ma la Russia odierna ha la forza ed il prestigio di tenere sotto controllo un’area così estesa ed esplosiva come l’Asia centrale? A Mosca a dubitarne sono numerosi specialisti che affermano sicuri: senza un Afghanistan pacificato difficilmente ci sarà pace per i Paesi limitrofi. Il rebus su come fare è aperto a tutti.
Giuseppe D’Amato
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