Doveva essere una guerra-lampo, genitrice di gloria per tutti, contro dei selvaggi male armati. Ed invece fu il disastro. Dopo 7 decenni di “pax sovietica” il Caucaso è tornato ad essere una delle zone più instabili e pericolose del pianeta. E come sempre accade in queste tragedie è l’umanità ad avere perso.
Sono tante le immagini che si affollano nella mente del cronista ora che ufficialmente, dal 16 aprile 2009, la guerra in Cecenia è finita. Indimenticabili sono gli occhi fieri di Akhmad Kadyrov, l’ex muftì che, ad inizio decennio, abbandonò con coraggio le file dei separatisti per diventare il centro delle strategie vincenti del Cremlino. Semplicemente gigantesca era la sua guardia del corpo, famose per il basso tasso di sopravvivenza con quel incarico. Lo sguardo triste delle adolescenti kamikaze, vestite di nero con ai fianchi le cinture piene di dinamite, ha colmato di orrore il mondo intero.
La violenza contro i civili, spesso usati come scudi umani, ha raggiunto livelli inauditi. Fa venire i brividi il ricordo dei pazienti, che sventolavano disperatamente, nel ’95, lenzuola bianche all’ospedale di Budionnovsk attaccato da un’unità al comando del guerrigliero Basaev. Il timore era che l’ex Armata rossa aprisse il fuoco con l’artiglieria pesante contro l’edificio. Al teatro moscovita della Dubrovka nel 2002 i più sfortunati tra gli spettatori-prigionieri sono morti affogati nel proprio vomito, dopo che i corpi speciali avevano usato un gas speciale per il blitz. Il massimo dell’infamia lo si è, però, vissuto a Beslan, dove un gruppo di delinquenti, armati fino ai denti, assaltò una scuola piena di bambini ed adolescenti. Le rovine della palestra bruciata, le bottiglie d’acqua – a testimoniare la terribile sete patita dagli allievi in quegli interminabili tre giorni – e le candele con la loro fiamma fioca rimangono un simbolo di vergogna inarrivabile. 334 innocenti morirono per niente.
Come non menzionare i tanti giornalisti, famosi e meno, che si sono immolati per raccontare al mondo quell’inferno. “Vado laggiù a vedere la situazione”, ci salutò Jochen Piest, 30enne corrispondente di Stern, in una gelida mattinata del gennaio ’95. Il suo sorriso, pieno di gioia, fu spento per l’eternità 4 giorni dopo da una raffica di kalashnikov. La bottiglia con le monetine radunate per comprare nei mesi successivi le scarpe per la sua sposa si è riempita di polvere sullo scaffale. Qualcun altro l’ha fatta franca in Cecenia, ma il destino è implacabile. E’ il caso di Valerij Batuev, reporter della Vremja MN, ucciso a Mosca nel suo appartamento da dei balordi. Accompagnava spesso i colleghi stranieri in Caucaso e la guerra gli era entrata talmente dentro che scriveva versi su di lei.
Come non dimenticare il poliziotto moscovita Misha, che era partito volontario per la Cecenia per sbarcare il lunario. I soldi che guadagnava non bastavano a sfamare la moglie e i due figlioli. Il piccolo gruzzolo racimolato gli è servito per andare dal dentista e farsi mettere i denti davanti mancanti.
“La prima sensazione è che in Cecenia non cambi mai nulla, neanche a morire – scriveva la grande reporter russa Anna Politkovskaja nel suo diario il 12 febbraio 2004 -. Tutti fanno la guerra a tutti. Gente armata ovunque. Si ha paura del prossimo. I visi hanno tutti la stessa espressione tetra. Tanti nevrotici, mezzi matti. La sintomatologia notturna: sparatorie, combattimenti, colpi d’artiglieria. Quella mattutina: crateri freschi provocati dalle esplosioni”.
Una follia collettiva ed un massacro orribile: ecco cosa è stato il conflitto ceceno. La scia di lutti è tipica degli scontri in Caucaso, terra-crocevia dove, per secoli, si sono incontrati imperi diversi. Turchi, persiani, russi e popolazioni locali se le sono sempre date di santa ragione. La differenza è che questa volta le tradizionali regole dell’onore sono completamente saltate. I giovani si sono schierati contro gli anziani; le donne hanno preso le armi nonostante l’opinione degli uomini. La secolare società cecena, divisa in clan, ha subito colpi durissimi portati dall’estremismo wahhabita importato dall’Arabia. Chi avrebbe mai immaginato di vedere delle ragazze kamikaze che volevano vendicare i propri mariti uccisi dall’esercito federale?
Un passo indietro serve a comprendere le cause di questa immane tragedia, figlia del crollo dell’Urss, quando per Mosca fu impossibile spiegare a Grozny che i kazakhi, i baltici o gli ucraini potevano diventare indipendenti, mentre loro, i ceceni, no. La Federazione russa avrebbe rischiato la disintegrazione dopo l’Unione Sovietica. Per il Cremlino, perdere il controllo del Caucaso avrebbe significato aprire la strada ad altri movimenti secessionisti e la diffusione di organizzazioni radicali nel “ventre molle” del Paese, sul Volga, dove vivono milioni di musulmani.
I ceceni, però, non vollero sentire ragioni. Nell’autunno ’91 si dichiararono indipendenti ed elessero come presidente un leggendario generale dell’aviazione sovietica, Giokar Dudaev. Mosca si rese conto della gravità della situazione, quando comprese che l’unico oleodotto, proveniente dal mar Caspio, era finito nelle mani dei separatisti. Dopo lunghe trattative scoppiò la guerra nel dicembre ’94. Fu una carneficina. Centinaia di migliaia furono i profughi.
Nell’agosto ’96 a Khasarviurt venne firmata la pace. La Cecenia diventò praticamente indipendente. Seguirono tre anni in cui la repubblica ribelle si trasformò in una specie di “terra di nessuno”. I vari clan ceceni si fecero la guerra fra loro. Vivevano di rapimenti, di contrabbando di petrolio e dei traffici più strani. Tutte le organizzazioni ed imprese internazionali vennero evacuate. Solo l’Afghanistan, l’Arabia Saudita e gli Emirati arabi riconobbero il governo ceceno. Grozny si trasformò presto in una delle basi del terrorismo islamico.
Poi nell’autunno ’99, a seguito di una lunga ondata di attentati, attribuiti ai ceceni, e della fallita invasione dei mujaheddin islamici del vicino Daghestan, Vladimir Putin – che al Cremlino stava per prendere il posto di Boris Eltsin – architettò la strategia giusta. La Russia rioccupò in tre mesi la repubblica ribelle, usando quell’acume che le era mancato durante la prima campagna. I capi del frammentato fronte separatista e i sempre più influenti mercenari “arabi” fuggirono sui monti. Iniziarono la guerriglia e gli attentati.
Putin ha vinto la partita perché riuscì a dividere i nemici: si appoggiò al clan più forte della Cecenia che prese, in breve, il sopravvento sugli altri. I comandanti avversari vennero sistematicamente eliminati con operazioni dei servizi segreti. Un conflitto internazionale, quasi incontrollabile, venne degradato a scontro puramente locale, dove Mosca impose la forza delle leggi e della sua Costituzione regionale.
Dopo l’uccisione di Akhmad Kadyrov nel maggio 2004 fu il figlio, Ramzan, a prendere le redini del clan-milizia e da quei giorni è diventato il vero “uomo forte” del Caucaso settentrionale russo. “La Cecenia di oggi – ha osservato di recente il nuovo presidente ceceno – è un’area pacifica in pieno sviluppo. Si incoraggia la crescita economica. I leader militanti, sulla cui coscienza pende il dolore e la sofferenza di migliaia di persone, sono stati eliminati, catturati o portati davanti ai giudici”.
Il centro di Grozny, la capitale cecena, che, fino a pochi anni fa, veniva paragonato ai ruderi di Stalingrado della Seconda guerra mondiale non porta più i segni spettrali del conflitto. Un’imponente moschea ed il corso principale dedicato a Vladimir Putin, pieno di negozi, testimoniano che il tempo delle armi è concluso da un pezzo. Il desiderio di indipendenza da Mosca di una parte della società cecena è ormai scemato. Sono poche decine i guerriglieri rimasti alla macchia sulle montagne.
Il Cremlino ne ha, quindi, preso atto in primavera, ma è dal 2004 che non si registrano veri attacchi armati. Sono state eliminate varie misure di sicurezza che vanno dal coprifuoco ai blocchi stradali ai rastrellamenti alla ricerca di estremisti islamici.
Si sono dischiuse indirettamente maggiori possibilità per gli investimenti e per dare un impiego stabile alla popolazione, circa 1,2 milioni di abitanti. Uno dei sogni nascosti dell’odierna leadership regionale è di collegare Grozny con voli aerei diretti provenienti dall’estero.
La nuova ondata di violenza nelle repubbliche confinanti è stata una vera doccia fredda. Non pochi terroristi hanno semplicemente passato la frontiera. Il presidente federale Medvedev ha incaricato Kadyrov di intensificare la lotta contro i “banditi”, che dalla sua repubblica hanno sconfinato nelle vicine Inguscezia e Daghestan. Nella prima, il 10 giugno scorso, sono stati uccisi la vice capo della Corte Suprema – mentre lasciava i bambini a scuola – e, tre giorni prima, un ex vice primo ministro. Lunedì 22 è stato ferito gravemente il presidente inguscio Junus-Bek Evkurov, per di più nello stesso luogo dove, cinque anni fa, era stata organizzata un’analoga azione contro l’allora presidente inguscio Murat Zjazikov. In Daghestan, ad inizio mese, è stato assassinato il ministro regionale degli Interni con fucili ad alta precisione in uso soltanto ad alcuni reparti delle forze speciali.
Lo speaker della Duma (la Camera bassa del Parlamento russo) Boris Gryzlov ha chiesto una dura risposta in Caucaso anche perché l’obiettivo dei “banditi” è di destabilizzare la situazione. Il senatore ceceno Aslambek Aslakhanov ritiene che Evkurov non andava più bene sia ai guerriglieri sia ad altri. Il presidente inguscio aveva dato pubblicamente il suo numero di cellulare ai cittadini per denunciare gli abusi dei funzionari, gli stipendi in ritardo e l’inestricabile rete di legami tra strutture deviate dello Stato e terroristi. Insomma il solito pantano caucasico. Altri esponenti politici spingono per migliori politiche sociali e maggiori investimenti del Centro nella Russia meridionale. Un elemento è però innegabile: a troppe persone conviene che la guerra in Caucaso continui. Se venisse a mancare il pericolo islamico perché Mosca dovrebbe spendere i suoi pochi petro-rubli rimasti nel bilancio proprio in queste terre dimenticate?
Il campanello d’allarme al Cremlino suona, comunque, da settimane. Il 22 giugno 2004 l’Inguscezia, che in epoca sovietica costituiva insieme alla Cecenia un unico soggetto della Russia, venne messa a ferro e fuoco per una notte da guerriglieri radicali. L’azione fu il prologo dell’attacco traditore alla scuola di Beslan. La speranza è che certi ricorsi storici non si ripetano più.
Giuseppe D’Amato
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