Mosca. “L’Ossezia è indivisibile” recita un’enorme cartellone all’ingresso dell’ex repubblica separatista georgiana. Di tornare sotto l’egida di Tbilisi manco a parlarne. Il sogno della gente di Tskhinvali non è, però, quello di rimanere indipendenti, ma di riunirsi con i fratelli del nord, facendo sventolare sul suo territorio il tricolore russo.
I disastri provocati dai confini, disegnati scriteriatamente in epoca sovietica, prima o poi emergono nella loro gravità. E’ bastato che uno spericolato presidente nazionalista volesse mettere mano allo status quo di una remota provincia separatista che il mondo, nell’agosto di un anno fa, ha rischiato una guerra globale. Quando le navi della Nato sono entrate inaspettatamente nel mar Nero i polsi in molte cancellerie hanno iniziato a tremare. I russi erano a soli 40 chilometri da Tbilisi e parevano non volersi fermare. Per fortuna la ragione, alla fine, ha prevalso, come nel 1962 a Cuba per la crisi dei missili.
Questi spaventosi eventi di dodici mesi fa paiono oggi lontani secoli all’opinione pubblica internazionale. Il cambio della guardia alla Casa bianca e la politica più morbida del Cremlino nel “vicino estero” garantiscono un periodo di riflessione. L’Alleanza atlantica ha scelto di rimandare l’analisi del complesso capitolo sull’adesione alla Nato di Ucraina e Georgia, terre di straordinaria importanza geostrategica.
In Ossezia come in Abkhazia, l’altra regione indipendentista georgiana, la tensione si taglia, però, sempre col coltello. Ai confini le scaramucce sono continue come le reciproche accuse. Dall’Osce all’Ue gli appelli alla calma si sprecano. Tbilisi si sta riarmando e Mosca sta cercando soluzioni alle troppe pecche evidenziate durante l’intervento militare dell’anno scorso. Il negoziato a Ginevra è in vicolo cieco, la ricostruzione viaggia a rilento, migliaia di profughi combattono ogni giorno con una quotidianità diventata impossibile.
Sono bastate elezioni contrastate in Moldova, la settimana passata, per rendersi conto che i contendenti hanno soltanto temporaneamente sotterrato l’ascia di guerra. I sottomarini russi in “navigazione” davanti alle coste statunitensi come durante la Guerra Fredda, proprio in questi giorni dopo decenni di assenza, non sono un bel segnale.
Le priorità adesso sono, comunque, altre in presenza di una pesante crisi economica: “resettare” le relazioni per giungere ad un accordo conveniente per la riduzione dei vecchi arsenali nucleari; unire le forze contro l’acuirsi del pericolo radicale in Asia.
Due questioni centrali rimangono, tuttavia, irrisolte. E’ possibile trovare una linea diplomatica comune e spiegare perché il Kosovo ha ottenuto l’indipendenza mentre l’Ossezia o l’Abkhazia o la Transnistria non hanno tali requisiti? La Russia da partner strategico può diventare un alleato dell’Occidente nell’arco di una manciata di anni? A queste domande serve trovare rapide risposte. In gennaio si terranno tesissime elezioni presidenziali in Ucraina. Il capitolo della Crimea, clamorosamente regalata nel 1954 da Nikita Chrusciov a Kiev, è già sulla bocca di alcuni politici russi.
Altri nodi stanno, quindi, inesorabilmente giungendo al pettine. Non prepararsi in tempo ad affrontarli significa rischiare di finire alla mercè dell’irresponsabile di turno o di logiche malsane e pericolose.
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