Rada. Casella postale 188, Unione Sovietica -. L’aria è gelida. Il sole splende, ma non scalda. La neve arriva in certi punti quasi alle ginocchia. Aleksandra Stepanova Krushatina avanza senza indugio in questa foresta fittissima di querce e di pini. Malgrado i suoi 79 anni, il passo è sicuro, grazie anche ai “valienki” neri, tipici stivaloni russi di feltro, che ha ai piedi. <<Ecco, i prigionieri di guerra dormivano lì>>, ci indica rossa in volto per il gelo, dopo cinque minuti di passeggiata, un fossato pieno di neve, dove sono ancora visibili dei pali piantati nel terreno. Qui, a sei chilometri dal lager, si fermava per la notte una delle tante squadre che tagliavano le querce, il cui legno serviva all’Armata rossa per costruire ponti o veniva utilizzato nelle miniere del bacino carbonifero del Donbass in Ucraina orientale.
Sessanta anni fa avveniva in Russia il più grande disastro della storia militare italiana e la maggiore ecatombe di nostri soldati di tutti i tempi. In tre fasi, tra il novembre ’42 ed il gennaio ’43, l’esercito sovietico circondò e mise fuori combattimento le truppe dell’Asse a Stalingrado e sul Don. Solo parte del Corpo d’armata alpino riuscì a ripiegare, rompendo l’accerchiamento a Nikolajewka il 26 gennaio ’43. L’avventura dell’Armir finiva lì, col successivo rimpatrio in primavera: secondo dati sovietici, in quei terribili mesi, morirono combattendo o di stenti circa 25mila soldati italiani, mentre approssimativamente 70mila furono fatti prigionieri. Per quest’ultimi iniziò un’odissea infernale. Solo 10.030 di loro tornarono a casa tra la fine del ‘45 ed il ’54.
<<Non capivamo cosa dicevano i prigionieri. Ce ne erano di tutte le nazionalità>>, racconta Aleksandra, ancora molto lucida nei suoi ricordi, nella sua isba di legno, arredata come se il tempo non fosse mai passato. Alcuni prigionieri in divise gialle” lavoravano con la popolazione civile. <<Ma perché dovevano scappare? E poi dove? Dopo tutto avevano da mangiare>>, dice la donna seduta vicino ad alcune immagini sacre. <<I rapporti con loro – aggiunge Aleksandra – erano buoni: vi era anche un piccolo commercio di oggetti che venivano scambiati per cibo>>. Episodi particolari? <<Una volta ero con la mia amica Julia vicino alla stazione. Alcuni dei prigionieri ci gridavano in russo di avvicinarci ai vagoni. Volevano abbracciarci e proponevano di baciarci. Dopo tutto anche loro erano dei ragazzi giovani>>.
L’ecatombe per gli italiani si ebbe nei primi 6 mesi di prigionia. La mancanza di ferrovie a scartamento ridotto obbligò i sovietici a sgomberare a piedi i prigionieri per centinaia di chilometri su strade innevate durante la stagione dei “morozy” (gelo) con temperature glaciali. Tanti sono i racconti tragici dei nostri sopravvissuti delle “marce del davai (in russo: forza, avanti)”, che si portarono dietro una spaventosa scia di sangue con soldati esausti, morti per la fame e gli stenti, o fucilati dalle guardie sovietiche. Una volta giunti alla ferrovia, i prigionieri venivano stipati come sardine in vagoni bestiame. Il viaggio durava giorni o settimane con scali eterni, quasi senza cibo ed acqua. Quando il treno raggiungeva i campi di smistamento e venivano aperti i vagoni piombati, erano più i morti che quelli rimasti vivi.
E’ proprio in questa foresta che verso il Natale del ’42 arrivarono, mezzi congelati e vestiti di cenci, i primi fanti dell’Armir, riempiendo uno dei più grandi campi di concentramento dell’Urss, il lager 188 di Rada, nei pressi di Tambov, circa 480 chilometri a sud-est di Mosca. Accanto alla stazioncina ferroviaria c’è la prima fossa comune.
In sei mesi, dal dicembre del ’42 entrarono a Rada 24mila prigionieri, di cui 10.118 italiani. Il lager non era attrezzato per accogliere tanti uomini, gli stessi carcerieri dormivano in ricoveri di fortuna. La mortalità era altissima: 1.464 a gennaio, 2.581 a febbraio, 2.770 a marzo. In 10 mesi sono state registrate 14.433 morti. La percentuale dei deceduti fra gli italiani del campo 188 è spaventosa: oltre il 70%.
I racconti dei sopravvissuti di quel periodo sono semplicemente agghiaccianti: fame, freddo, malattie. Mancava tutto, fino alle cose più elementari. Le risse per un pezzo di pane erano frequentissime. I morti non venivano nemmeno sepolti, così gli uomini del bunker avevano una porzione in più da mangiare. L’abbrutimento era completo. Il lager diventò presto un letamaio ed un lazzaretto: la dissenteria faceva strage insieme al tifo petecchiale. I pidocchi non davano tregua e non si riusciva in nessun modo a debellarli.
Il campo di concentramento di Rada venne creato alla fine del ’41: i sovietici avevano bisogno di un luogo per filtrare i propri soldati o partigiani “liberati”, sospettati di collusione col nemico per il solo fatto di essere stati catturati. I prigionieri vivevano in specie di bunker, grandi buche nel terreno (13 metri per sette) e una tettoia appena fuori terra, in grado di ospitare 80 uomini. Col tempo, il campo si allargò e le condizioni di vita decisamente migliorarono. Si riuscirono a celebrare persino le Sante messe a Pasqua e Natale. Nel ’47 Rada venne chiusa. <<Probabilmente per un litigio tra Stalin ed il generale De Gaulle – sostiene la nostra guida, Evghenij Pisarev -. E’ qui che erano tenuti prigionieri gli alsaziani e i loreni che Hitler aveva reclutato con la forza. Alcuni di loro furono spediti a combattere in Africa>>.
L’Nkvd, la polizia segreta sovietica, distrusse il campo, cancellando ogni traccia, e la zona rimase chiusa, segreta, anche per la presenza nelle vicinanze di un poligono di tiro. <<Dimenticate!>> fu l’ordine impartito dalla Lubjanka. Tutte le cartelle personali dei prigionieri di Rada furono spedite all’Archivio militare di Mosca, dove rimangono gelosamente custodite. Ed <<è quasi impossibile consultarle – mette in chiaro lo storico moscovita Nikita Okhotin, che ha condotto studi sui comunisti italiani uccisi da Stalin -. Il ministero della Difesa italiano ha comunque ricevuto, agli inizi degli anni Novanta, delle microfiche con alcuni elenchi dei vostri militari>>.
Elenchi che sono purtroppo in cirillico ed i cognomi sono difficili da decifrare e spesso non corrispondono a quelli dei soldati dell’Armir. A Tambov, città famosa per i lupi, all’archivio regionale è rimasto un fondo, dimenticato dal solito pressappochismo russo. <<Vi sono 44 cartelle con dati generali: ordini, elenco di materiale ed equipaggiamento. Le ritrovammo per caso intorno al 1990>>, ci dice l’archivista Tatjana Krotova, che ci mostra anche il rapporto sulla cattura di due fuggiaschi italiani, Felice Celoti (classe 1918) – classificato come antifascista – ed Angelo Calzani (1920), arrestati a 25 chilometri da Rada.
Avanziamo tra la neve, alta un palmo, nel cimitero memoriale, inaugurato nell’agosto ’98, sul lato esterno del campo. Dopo decenni la memoria ha avuto finalmente il sopravvento sull’oblio. E lo storico pellegrinaggio di Carlo Azelio Ciampi, il 29 novembre 2000, ha contribuito enormemente a ricordare quei tragici anni. I cittadini di Tambov non dimenticano e parlano del presidente italiano con grande ammirazione. <<Qui – sottolinea Pisarev – non è mai venuto nessuno: né Eltsin né Putin né altri leader stranieri. Il vostro presidente sì>>. Il futuro capo dello Stato fu mandato nell’autunno ’42 a combattere in Albania nel corpo degli autieri, ma avrebbe potuto essere dirottato in Russia, proprio quando il fronte del Don crollava.
E’ l’una. La temperatura è ben oltre i 20 gradi sottozero. Insomma sono le stesse condizioni climatiche trovate dai nostri militari 60 anni fa. Vi sono vari cippi commemorativi a ricordo delle migliaia di soldati, appartenenti a 29 nazionalità differenti (molti erano anche alleati dei sovietici: inglesi, americani, polacchi!), passati per Rada o sepolti qui intorno nelle gigantesche fosse comuni. Qui riposano per sempre tra 10 e 15mila nostri ragazzi. Di molti di loro non si conosce nemmeno il nome.
Scopriamo dalla neve il cippo italiano. Il luogo lascia il visitatore senza parole ed incute commozione. Nella mente tornano le parole pronunciate da Ciampi a Tambov nel 2003: <<Gli Stati multietnici sono uno scudo contro le barbarie. Se non si tiene viva la memoria ogni cosa terribile del passato può tornare a ripetersi>>.
Tambov – <<Spesso non c’è una logica>>. Evghenij Pisarev è il massimo studioso russo del campo di Rada. La sua curiosità l’ha frequentemente messo nei guai soprattutto con l’omertoso potere sovietico locale, a metà degli anni Ottanta. La verità doveva, però, venire a galla ed il suo contributo è stato rilevante. <<Secondo me – afferma il 56enne giornalista, autore di un libro sul campo 188, – nelle fosse comuni di Rada ci sono almeno 50-60mila morti. Ufficialmente ce ne sono molti meno, ma quei documenti non sono veritieri. Per coprire l’alta mortalità, l’Nkvd diede ordine di utilizzare la dicitura “trasferito”>>.
Pisarev davanti all’archivio di Tambov
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La presenza dei nostri militari è stata segnalata in oltre 400 lager dislocati su tutto il territorio sovietico. Continue furono le loro peregrinazioni, quasi senza senso, per l’Urss: dalla gelida Siberia all’afoso Uzbekistan, dal confine cinese all’Ucraina. Ai soldati dell’Armir, catturati sul Don, bisogna aggiungere anche i nostri militari, fatti prigionieri dai tedeschi su altri fronti e “liberati” dall’Armata Rossa, ma finiti nei campi di concentramento di Stalin. In totale, dai dati del Commissariato del ministero interno dell’Urss, dai 5mila luoghi di detenzione passarono 6 milioni di persone provenienti da 30 Paesi.Nell’inverno ’42 i sovietici non erano assolutamente pronti a dover gestire in poche settimane ben mezzo milione di prigionieri. Vi era in loro una volontà distruttiva sui vinti? <<No – dice Pisarev -. Non c’è mai stata. Ad esempio, il lasciare giornate intere i treni fermi sui binari con la gente pigiata nei vagoni senza cibo ed al gelo è un elemento tipico del solito casino russo, della disorganizzazione, del menefreghismo. L’unica attenuante è la guerra>>. I prigionieri stranieri hanno provato sulla propria pelle, né più né meno, quello che vivevano quotidianamente i cittadini sovietici. Ed è andata loro ancora bene. <<Non bisogna dimenticare – continua il nostro interlocutore, spesso balbettando, – che, negli anni Trenta, Stalin ha ucciso forse 20 milioni di persone. I prigionieri sovietici dei tedeschi, una volta nelle mani dell’Armata Rossa, sono finiti nei lager. Molti sono stati fucilati come traditori>>. Perché ci sono stati così tanti morti fra i militari italiani? <<Siete gente del sud – sostiene Pisarev -, non abituati al nostro clima ed alla nostra alimentazione. Per di più senza nemmeno il vestiario adatto. Hitler è stato un pazzo a volere gli italiani in Russia. Per fortuna la popolazione locale vi ha ben accolto ed aiutato, altrimenti quei poveracci morivano tutti>>.
Tambov – Basta visitare il sito Internet dell’Associazione nazionale reduci di Russia per capire il perché l’Italia ha sempre cercato quasi di minimizzare la tragedia di 60 anni fa: non si volevano aprire ulteriori ferite. Poco chiaro è, infatti, il ruolo avuto dai fuoriusciti italiani sia nei campi di detenzione sia a Mosca, nel perorare la causa dei propri connazionali presso il potere sovietico. Alcuni di loro sono stati deputati e senatori della Repubblica nel dopoguerra. I francesi hanno messo da parte le dispute ideologiche passate, riuscendo a farsi un quadro preciso della tragedia in Russia con tanto lavoro negli archivi. Gli italiani, invece, non ancora. Il quindicennale “L’Alba” e Radio Mosca sono stati a lungo per i nostri prigionieri l’unico mezzo per sapere cosa succedeva nel mondo. Nei campi si trovavano solo pubblicazioni e libri comunisti in italiano. <<Nei lager – ci spiega Pisarev – vi erano agenti infiltrati, che cercavano potenziali futuri adepti da mandare alla scuola antifascista di Mosca e poi all’estero>>.
Nelle cartelle personali vi era la voce sull’appartenenza politica e non erano pochi i documenti, ancora in archivio, in cui i sovietici segnalavano il numero dei militari convertiti o potenzialmente sulla via della conversione e gli agenti attivi. Da una nota del libro di Pisarev: <<Situazione al 1° ottobre 1944: (a Tambov) 4522 antifascisti, in particolare tra gli italiani 1700; tra loro attivi 42. Domande per la formazione per la lotta antifascista: tra gli italiani 1940 soldati, di cui 4 sono ufficiali>>. <<Secondo me, però, – sostiene il giornalista di Tambov – sono cifre inventate>>.
La caduta del fascismo, il 25 luglio ’43, e l’8 settembre cambiarono molte delle convinzioni politiche dei nostri prigionieri. Il problema era, come scrive Carlo Vicentini in un suo libro, che <<non bastava essere antifascisti, bisognava essere comunisti>>. <<I contrari – aggiunge Vicentini al telefono – venivano isolati dall’Nkvd. A parte i capi, i commissari politici italiani erano dei poveracci. Spesso erano reduci della guerra di Spagna. Erano gli unici che parlavano l’italiano ed avevano il compito di fare propaganda. All’epoca del fascismo noi non sapevamo niente di cosa avvenisse al di fuori nel mondo. I sovietici non ci dovevano, però, obbligare a cambiare idea>>. A volte avvenivano lunghi interrogatori e nei campi era segnalata la presenza di delatori fra i nostri militari.
I soldati vennero rimpatriati alla fine del ’45, mentre gli ufficiali, per ragioni politiche, ben dopo lo svolgimento del referendum del giugno ’46. L’opinione pubblica italiana era rimasta scossa dai racconti sulla prigionia in Urss dei primi sopravvissuti arrivati in Patria. Gli ultimi 28, rei non si di che cosa, furono liberati soltanto nell’inverno ’54.
Giuseppe D’Amato
Vedi anche:
* Nikolajewka: la tragedia del Don
* DonItalia
* Museo del Medio Don – Rossosch
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We are a group of long experienced European journalists and intellectuals interested in international politics and culture. We would like to exchange our opinion on new Europe and Russia.
16 Responses to Il Lager degli Italiani nel Paese dei Lupi – 1943 – 60 anni dopo. Inverno 2003
Silvia Falca
December 9th, 2009 at 12:41
Per favore, mi potete dire dove e come posso trovare il libro di Pisarev?
Immagino sia in russo ma non è un problema. Visto che però vivo in Italia vorrei dei riferimenti precisi per poterlo ordinare. Grazie
Nikolajewka: la tragedia del Don – 60 anni dopo – 2003 - EuropaRussia.com
February 23rd, 2010 at 20:46
[…] Il Lager degli Italiani […]
paolo.bitec@tiscali.it
February 23rd, 2011 at 15:10
Buongiorno ,
sono nipote di un alpino , Soldato Gonzo Francesco. catturato dalle FF.AA Russe , internato nel campo n.188 Tambov ove e’ deceduto il 27.03.1943
Cosi’ e’ dato dagli esiti delle ricerche degli archivi Onorcaduti .
Chiedo se e’ possibile saperne di piu’ , grazie.
Paolo da Brescia
admin
February 23rd, 2011 at 21:15
Gli archivi di Onorcaduti sono basati sui materiali ricevuti dai russi. Il dubbio è che i russi, a volte confusionari, non tutto abbiano trasmesso.
Ha qualche altro dato di suo zio?
RENZA MARTINI
February 25th, 2011 at 17:15
Sto facendo ulteriori ricerche su mio zio MARTINI ENZO,nato a Imola 4/07/1922,fante caporale, mitragliere del 90° regg. ,2° battagl., 8 compagnia, divisione COSSERIA. Per l’onorcaduti e’ morto-disperso il 24 dicembre 1942, luogo sconosciuto, il fatto e’ che io possiedo testimonianza scritta da un suo compagno, rientrato nel ’43, in cui dice di avere visto Enzo in ospedale a TULA( che pero’ nella lista ospedali non c’e’),triste , demoralizzato, non scrive a casa ecc. e ” sicuramente e’ stato fatto prigioniero , perche’ non poteva scappare, avendo un piede congelato di 3° grado..”parole sue. Se era a Tula, non poteva essere prima del 24 dicembre ’42, quando da pochi giorni c’era stato lo sfondamento del fronte sul Don, proprio sulla COSSERIA ( e Ravenna). Vorrei poter trovare il suo nome scritto in qualche elenco ospedale o lager, quindi posticipare la morte ufficiale, e eventualmente risalire al luogo di sepoltura.
Inoltre, proprio per ricostruire il percorso di sopravvissuti alla Cosseria ,avrei bisogno di testimonianze di reduci di tale reggim. o battaglione, ma non riesco a trovare nessuno,(solo testimonianze di alpini o altri) eppure qualcuno di loro e’ ritornato. Grazie per la risposta, RENZA MARTINI, nipote
admin
February 27th, 2011 at 18:15
Ci sono dettagli che non tornano in questa storia. La invito a verificare meglio. Tula non è mai stata conquistata dalle truppe dell’Asse, ma è sempre rimasta sotto controllo sovietico.
Come fa quel compagno di suo zio ad essere rientrato in Italia nel ’43? I primi prigionieri italiani sono rientrati nel ’46. Il Cosseria si trovava molto più a sud
di Tula, 2-300 chilometri. Percorrere tutta quella strada in pochi giorni in inverno a piedi è impossibile. Attenzione che spesso i prigionieri italiani non sapevano in realtà dove fossero.
europaru@europarussia.com
enrico cantagalli
August 28th, 2011 at 11:46
Hello
my Onkel fredinando Berti from faneza.
Him was los in that period .
i need some contacts with some peopel with the some problem.
Sorry i can not wirte italian but speak.
plese contakt me.
Enrico.cantagalli@alcan.com
pierangela
July 18th, 2012 at 20:28
Buon pomeriggio ,
sono la nipote di Beriani Adelmo nato a Bologna nel 1921. sono alla ricerca di reduci o figli di reduci che sono tornati dal Lager di Aleksin.
mio zio è stato catturato dalle forze armate russe il 17 gennaio 1943 a Rossoch ed internato nel lager di Aleksin dove è morto il 17 aprile 1943.
pierangela
July 18th, 2012 at 20:31
Sono alla ricerca di reduci o figli di reduci che hanno avuto il coraggio di denunciare e far condannare a TRE ERGASTOLI un certo TASSOLI ARDUINO , che ha ucciso tre persone e lasciato morire piu’ di una quarantina di prigionieri sui treni che trasportavano i nostri cari nei campi di concentramento.
pierangela
July 18th, 2012 at 20:31
NEI CAMPI DI CONCENTRAMENTO IN RUSSIA
lionella rizzatti
January 30th, 2013 at 16:29
Cerco notizie di mio zio Egidio Rizzatti che è stato dichiarato deceduto nel campo 188 di Tambow perchè vorrei cercare di chiarire il fatto che un militare che era con lui ha invece dichiarato di averlo visto cadere morto in combattimento.Mio zio era nato a Roncoferraro di Mantova ed era sergente di fanteria.Grazie di cuore,so che è una cosa difficile la mia ricerca,ma tutto è possibile,Lionella
lionella
October 14th, 2013 at 16:32
grazie a chi mi può aiutare
elena
January 7th, 2014 at 00:08
Buongiorno, mio nonno Landoni Angelo di Rho, è deceduto come ho saputo nel campo di krinovoe nel voronesc in provincia di bobrov in Russia nel aprile 1943 circa, lui faceva parte della Divisione Sforzesca, vorrei sapere se ci possono essere altre notizie, grazie
Adriano
January 23rd, 2014 at 13:26
Cerco notizie di mio nono Arturo Antonelli figlio di Federico e Fante dell’ 82 Reggimento Fanteria Torino 2 battaglione 3 compagnia . E’ stato considerato disperso il giorno 17 gennaio 1943.
Grazie
Adriano
Carlo Carli
March 6th, 2014 at 21:36
Grazie per le notizie che mi potete dare sull’Alpino del Battaglione Pieve di Teco, Div. Cuneense, Vincenzo TURCO di Ospedaletti (IM), imprigionato a Tambov. Vorrei sapere specialmente quando fu dichiarato morto e se fosse possibile sapere di cosa. Grazie,
admin
March 13th, 2014 at 18:18
La miglior cosa da fare è rivolgersi a Onorcaduti a Roma. Lì ci sono tutte le informazioni raccolte su ogni singolo caduto.