Sessant’anni da quel terribile 1945. Il mondo ricorda. Vecchie ferite si riaprono immancabilmente, mentre tornano alla mente tragedie passate. L’Europa centro – orientale inizia a fare i conti liberamente con la storia ad un quindicennio dalla dissoluzione del comunismo. Troppe le pagine volutamente dimenticate o mistificate che spingono verso la riscoperta della memoria collettiva.
“Diciamo oggi una volta per tutte – ha ammonito il presidente russo Vladimir Putin ad Auschwitz in gennaio – che ogni tentativo di riscrivere la storia, cercando di mettere sullo stesso piano vittime e boia, liberatori ed occupanti, è amorale e non compatibile con la coscienza della gente, che si considera europea”.
La Seconda guerra mondiale sul fronte est è stato un inferno e le sue conseguenze sono cessate solo nel 1989 col crollo del Muro di Berlino. Se vincitori e vinti del conflitto si sono alla fine riconciliati, un solco profondo rimane ancora oggi tra i russi e i popoli caduti nell’oblio, sotto il tacco di Stalin. Estoni, lettoni, lituani, polacchi, cechi, slovacchi, ungheresi dovettero sopportare, per mezzo secolo, chi la dominazione sovietica chi un regime politico altrui.
Dopo lo scioglimento dell’Urss due emigranti di quegli anni bui, il lituano Valdas Adamkus e la lettone Vaira Vike-Freiberga, sono tornati in Patria ed adesso ne sono diventati capi di Stato. Nei Paesi baltici è forte la volontà di scoprire la verità, di ricostruire i legami con chi è stato deportato in Siberia. Nel novembre ‘98 la presidenza della repubblica lettone ha costituito un Comitato di storici (locali ed internazionali) per studiare il periodo contemporaneo: le due occupazioni tedesca e sovietica. Tanti sono i volumi già pubblicati.
Quanto sia stato tribolato il Ventesimo secolo a quelle latitudini balza subito agli occhi. A Riga il museo dell’Occupazione si trova proprio davanti al monumento ai fucilieri lettoni, una delle divisioni d’élite dell’esercito zarista durante la Prima guerra mondiale, che passarono con armi in pugno con i bolscevichi e diventarono tra i più ferrei difensori della Rivoluzione d’ottobre.
Se si visita la Sinagoga della capitale lettone si odono i racconti dei sopravvissuti, che confermano che i criminali di un tempo non erano solo di nazionalità germanica. Accusa confermata anche ufficialmente. “Tra le Waffen SS lettoni, le unità collaborazioniste create dai tedeschi con militari locali, vi erano anche molti assassini”, conferma Margeris Vestermanis, storico prestigioso, sfuggito alla morte miracolosamente in quegli anni terribili. “E’ stata la pubblicistica – continua uno dei componenti della Comitato statale – a creare il mito dei combattenti lettoni per la libertà, gente che aiutò gli Alleati anglo-americani. Nessuno dei contendenti aveva promesso l’indipendenza della Lettonia”. Nell’autunno 2003 il rabbino capo di Russia, Berl Lazar, ha chiesto un intervento del premier israeliano Sharon sui governi baltici contro le mistificazioni storiche.
Estonia, Lettonia e Lituania sono rimasti stritolati tra Hitler e Stalin ed hanno visto nel 1940 la loro sovranità sfumare. Allora in molti scelsero di combattere contro l’Urss, anche dopo la fine del conflitto nelle foreste. “Nessuno giudica mai il vincitore”, sostiene Nikolajs Romanovskis, presidente dell’Associazione dei soldati nazionali lettoni che aggiunge “noi abbiamo scelto i tedeschi perché erano i nemici del comunismo. Erano amici solo per quel momento. Dovevamo combattere un nemico che aveva già deportato ed ucciso parte del nostro popolo”.
Ogni volta che in Estonia e Lettonia si discute di innalzare un monumento ai legionari delle Waffen SS scoppiano le polemiche. Nel 2002 a Parnau venne installato un busto in ricordo dei morti estoni per la libertà. Il militare raffigurato, però, aveva le insegne delle SS. Dopo pochi giorni il busto è stato prontamente levato.
Allo stesso tempo, in Estonia e Lettonia sono cominciati i processi contro gli ex partigiani dell’Armata rossa, alcuni dei quali sono finiti in galera per aver compiuto crimini durante la guerra. Pesanti sono state le critiche del Cremlino. Per il cittadino comune russo i baltici sono solo dei “semplici fascisti”.
Dinamiche assai simili, ma meno rimarcate di quelle baltiche, con lo scopo di recuperare la “memoria perduta”, si osservano anche in Ucraina occidentale ed in Polonia. Le due comunità sono assai influenti in Canada e negli Stati Uniti. Gli ucraini all’estero hanno dato un sostanzioso contributo alla “rivoluzione arancione” del neo presidente Jushenko, che, da anni, spinge verso la riscoperta dei simboli nazionali. Il suo predecessore, Leonid Kuchma, era stato il regista della riappacificazione con i polacchi per i massacri di Volinia con centinaia di migliaia di morti inermi nel ‘43.
Sulle relazioni russo – polacche pesa ancora come un macigno l’eccidio di Katyn, oltre 20mila militari di Varsavia, prigionieri di Mosca e trucidati a sangue freddo dall’NKVD, il progenitore del Kgb. Putin ha consegnato al collega Kwasniewski parte dei documenti rinvenuti negli archivi. Manca, però, ancora un atto simbolico.
Dopo le accese polemiche per la crisi politica in Ucraina il capo del Cremlino è stato il principale ospite al 60esimo anniversario per la liberazione di Auschwitz da parte delle truppe sovietiche. Kwasniewski ha sottolineato più volte il sacrificio delle centinaia di migliaia di russi morti per la liberazione della Polonia dai nazisti. Se nell’immaginario collettivo dei russi i polacchi restano degli amici, in alcuni ambienti di Varsavia i russi sono visti come una minaccia alla libertà del proprio Paese.
Una spinta necessaria per un futuro migliore
In Europa centro-orientale, quando si discute del passato, si litiga quasi su tutto. “Certo – ha velenosamente polemizzato a distanza con Putin il presidente lettone Vaira Vike-Freiberga –, noi non tenteremo di convincere e non cambieremo la coscienza di quegli anziani russi che il 9 maggio avvolgeranno il pesce essiccato nel giornale, berranno la loro vodka e si metteranno a cantare canzoni popolari di bassa lega ed insieme ricorderanno come loro eroicamente conquistarono il Baltico”. Per il ministero degli Esteri di Mosca in Lettonia “i sentimenti di revanchismo storico sono attivamente sostenuti anche dalle più alte cariche statali”.
Riga ha pubblicato un volume dal titolo Storia della Lettonia: il 20esimo secolo, che la Freiberga ha regalato a Putin. Polemiche a parte, il presidente lettone – unico tra i capo di Stato baltici – ha già reso noto che il 9 maggio, giorno dei festeggiamenti per la fine della “guerra patriottica”, sarà sulla Piazza rossa a Mosca insieme a tutti i maggiori leader mondiali. Il Parlamento di Riga appoggia le scelte presidenziali.
“Oltre a commemorare chi perse la vita durante la guerra – si legge in un messaggio della Freiberga al Paese – non dobbiamo dimenticare i crimini contro l’umanità commessi sia da Hitler che da Stalin. Per la Lettonia, l’inizio della fine della Seconda guerra mondiale giunse molte decadi dopo, il 4 maggio 1990, insieme con il crollo dell’impero sovietico e la restaurazione dell’indipendenza nazionale dopo 50 anni di occupazione… La Lettonia invita la Russia a condannare il patto Ribbentrop – Molotov e i crimini del totalitarismo”.
Nel ’39 sovietici e tedeschi si spartirono l’Europa centro – orientale e le conseguenze di quell’atto sono state pagate a duro prezzo dai popoli della regione. In un incontro a Mosca il presidente estone Ruutel ne ha parlato con Putin. “Al momento solo una valutazione storica è possibile – ha dichiarato l’ufficio stampa del Cremlino -. Non c’è possibilità di una valutazione giuridica per le realtà correnti”. Russia ed Estonia hanno problemi di demarcazione dei confini ancora non risolti. Ruutel ha raccontato che Putin si è impegnato a considerare nullo il patto di non aggressione del 1939. Il 9 maggio, forse, vi potrebbe essere l’annuncio ufficiale nel tentativo di iniziare un vero corso di riconciliazione.
E ce ne sarebbe un gran bisogno visto la situazione dei russofoni nel Baltico e degli scontri continui Ue – Russia: dichiarazione improvvida sulla tragedia di Beslan e crisi Ucraina, soprattutto.
Ingombranti simboli del passato
Ma perché solo la svastica e i simboli del nazismo? E’ polemica al Parlamento europeo, dove i deputati dell’Europa centro – orientale hanno chiesto di includere anche la falce ed il martello tra ciò che deve essere vietato. “C’è un doppio standard nel trattamento delle ideologie di estrema destra e di estrema sinistra” in Europa, hanno accusato il centrista di destra ungherese Jozsef Szajer ed il lituano Vytautas Landsbergis. “Persino oggi manchiamo di un giudizio del passato totalitario comunista”, ha rincarato la dose l’estone Tunne Kelam.
Il commissario alla Giustizia, Franco Frattini, non ha, però, accolto le osservazioni. Un suo portavoce ha segnalato la volontà di differenziare simboli nazisti da quelli sovietici. La norma di divieto della svastica è inserita nella legge contro il razzismo e la xenofobia. Il dibattito politico sui simboli nazisti è iniziato dopo che il principe britannico Harry aveva indossato ad una festa un vestito con simboli nazisti.
Anche nell’ex Urss, tuttavia, ci si pone il problema delle statue dedicate a Stalin. Se fino al ’91 ne si poteva vedere una a Gori, città natale del “padre dei popoli”, adesso alcuni monumenti sono stati innalzati, non senza critiche, in Russia, dove, da quasi un anno, ci si sta preparando attivamente alle celebrazioni per la sfilata della vittoria sulla Piazza rossa.
Non così, ai primi di febbraio, a Yalta, dove si è ricordata la Conferenza che definì il destino dell’Europa per mezzo secolo. Niente, se non qualche foto al palazzo Livadisky, ha ricordato il dittatore georgiano. Il potere stalinista, secondo alcuni calcoli, ha provocato più lutti in Urss che la Seconda guerra mondiale (27 milioni). I tatari crimeani, deportati in Siberia, hanno minacciato disordini. Le autorità locali hanno preferito dare risalto alla statua dedicata al presidente statunitense Roosevelt, una delle più grandi mai erette.
Giuseppe D’Amato
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