La partita di calcio di Genova per le qualificazioni ad Euro-2012 di Polonia ed Ucraina ha offerto un palcoscenico insperato agli ultra – nazionalisti serbi. Nell’arco di qualche settimana le autorità di Belgrado – che dal 25 ottobre guideranno un Paese candidato all’adesione all’Unione europea – e quelle kosovare apriranno una trattativa sotto l’egida di Bruxelles. Il viaggio del segretario Usa Hillary Clinton nella regione è servito a definire gli ultimi particolari e a ribadire che Washington sostiene questa iniziativa.
Ma “non riconosceremo l’indipendenza del Kosovo”, ha subito messo in chiaro il presidente serbo Tadic all’emissario di Obama. I kosovari rispondono di essere pronti a sedersi ad un tavolo solo per definire alcune “questioni tecniche”. La cosa importante è che le due parti in conflitto si incontrino. “Anche se ci saranno presto qui le elezioni presidenziali – ha sottolineato a Pristina il capo della diplomazia Usa – si deve incominciare a parlare e soprattutto a produrre dei risultati”. Il premier Thaci ha evidenziato che è tempo che serbi e kosovari “terminino un conflitto vecchio di un secolo”.
In precedenza la Clinton era stata in Bosnia, dove ha invitato le tre comunità etniche – musulmana, croata e serba – a superare le divisioni e a non rischiare di perdere l’occasione di aderire all’Unione europea ed alla Nato. “Non accettate lo status quo – ha detto la Clinton – non ritiratevi nelle vostre comunità”. Dalle elezioni generali di inizio ottobre il Paese è uscito piegato su sé stesso e nelle mani dei nazionalisti.
Dopo gli accordi di Dayton del ’95, che hanno fatto seguito a 3 anni di guerra con 100mila morti, sono nate la federazione croata-musulmana e la repubblica serba di Bosnia. Il segretario di Stato Usa ha incontrato il nuovo leader serbo locale Dodik, che spinge per la secessione.
L’integrazione europea sia in Serbia che in Bosnia o Kosovo è la promessa in cambio di concessioni ai vecchi nemici ed al raggiungimento della completa pacificazione della regione. Il problema è, però, capire quanto l’Ue sia pronta ad accettare altri membri, che hanno così grandi questioni aperte alle spalle. La delusione per gli scarsi progressi mostrati da Romania e Bulgaria dopo la loro adesione all’Unione potrebbe essere un ostacolo. La domanda su che cosa sia l’Ue resta senza risposta: un futuro super-Stato o uno spazio economico, democratico e giuridico comune? La sensazione è che qualcuno oltreoceano definisca priorità altrui.
Sullo sfondo nei Balcani si scorge la lotta per il controllo dei corridoi orientali dell’energia con i progetti russo-italiano “South Stream” ed euro-americano “Nabucco” (che salta la Russia) in concorrenza. Washington ha investito nell’economia serba dal 2001 quasi un miliardo di dollari in aiuti. La Clinton l’ha probabilmente ricordato a Tadic. Gli investimenti stranieri a Belgrado si aggirano sui 15 miliardi con gli italiani in prima fila (Fiat, Eni, Finmeccanica, Omsa).
Gli ultra-nazionalisti serbi, legati ad un passato nostalgico, non vogliono dire addio definitivamente al Kosovo, considerato come loro culla. Tutta questa occidentalizzazione del Paese viene vista con il fumo negli occhi. La Jugoslavia non c’è più. Resiste soltanto un universo balcanico comune, una “Jugosfera“, neologismo coniato dal settimanale britannico Economist, un’area commerciale e industriale dove i popoli ex jugoslavi hanno deposto le armi e ripreso a cooperare.
Come sia stato possibile che a Roma non si siano resi conto del pericolo della partita Genova lascia sorpresi. Il risultato è stato che le società civili dei due Paesi sono state sconfitte da un’orda composta da soltanto un centinaio di imbecilli.
Giuseppe D’Amato
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Un musulmano ed un croato, entrambi moderati, compartiranno insieme ad un falco serbo la presidenza tripartita della Bosnia Erzegovina. Bakir Izetbegović, figlio del leader musulmano Alija durante la guerra negli anni Novanta, ha già offerto il proprio impegno per una ricerca comune di pace e stabilità. Sulla stessa linea anche Željko Komšić. Ma come ribadito durante la campagna elettorale per le elezioni generali i serbi pensano più alla secessione che al rafforzamento dello Stato. Nebojša Radmanović esprime, però, una posizione meno dura rispetto a quella del premier Milorad Dodik, che ha definito la Bosnia Erzegovnia come un errore della storia e prevede la sua scomparsa nell’arco di qualche anno.
Gli osservatori internazionali sono rimasti sorpresi dall’inusuale alto numero di schede annullate tra i serbi, quasi il 10% del totale. L’Osce chiede l’apertura di un’inchiesta. Da più parti si levano accuse di brogli.
L’attuale Bosnia Erzegovina è nata con gli accordi di Dayton del 1995, che posero fine a tra anni e mezzo di guerra con 100mila morti. E’ stata creata una presidenza tripartita per rappresentare i principali gruppi etnici. La popolazione è divisa tra Federazione croato-bosniaca e Republika Srpska. Il sistema politico è straordinariamente complesso. Gli elettori scelgono i rappresentanti soltanto delle proprie entità. Ossia un residente della Republika Srpska non elegge i membri del Assamblea della Federazione di bosniaca, e viceversa. Nei 14 Parlamenti del Paese vi sono 5 presidenti, 13 primi ministri e 700 deputati per una popolazione di appena 4 milioni di persone.
Il compito dei tre presidenti eletti è assai impegnativo. La crisi economica è pesante (2010, crescita del Pil del +0,5%) e la disoccupazione supera il 40% della forza lavoro. La giungla burocratica viene additata come causa principale della difficoltà per i privati di iniziare proprie attività produttive. Gli obiettivi di aderire all’Unione europea ed alla Nato restano lontani. La pace e la stabilità sono garantite da truppe straniere.
Bruxelles ha esortato i vincitori delle elezioni di domenica a dimenticare le differenze etniche ed a rilanciare le riforme, che potrebbero rafforzare l’integrazione continentale e garantire un futuro alla popolazione locale. Lo scenario peggiore sarebbe un referendum per la secessione dei serbi o una serie di incidenti che provocarebbero un nuovo conflitto armato.
Hiroshima. “Ho 82 anni, la mia memoria diventa sempre più debole, ma quel giorno non lo dimenticherò mai”. Così ci accoglie Koji Hosokawa in un stanza del Museo della Pace. Lui si è salvato perché si trovava ad 1,3 chilometri dall’epicentro. E’ stato solo ferito dalle schegge. “Quel giorno – continua l’uomo – ha segnato tutta la mia vita. Ho perso mia sorella minore, uccisa dalla bomba. Quello è stato l’evento più triste della mia vita. Per tutti i 65 anni successivi non mi sono mai sentito al massimo moralmente”. Per la prima volta un rappresentante ufficiale statunitense è stato presente alla cerimonia. Lei ritiene che sia venuto il momento che gli Usa si scusino per Hiroshima?
“Parte di me pensa che l’America dovrebbe decidersi a compiere questo passo, ma non voglio che Washington si senta costretta a farlo. Chiedo solo rispetto e preghiera per le vittime di questa tragedia. Vorrei anche che ci si decida ad abolire una volta per tutte le armi atomiche”.
Che sentimenti aveva nell’animo quel terribile giorno?
“Mi sentivo completamente perso. Non capivo cosa stava succedendo. Un caos totale”.
Sono rimasto sorpreso che, come riporta un manifesto in visione al Museo della pace, il giorno dopo il bombardamento atomico la fornitura dell’energia elettrica riprese e 3 giorni dopo il servizio dei tram nei quartieri periferici della città era in funzione. E’ incredibile l’efficienza giapponese.
“A quel tempo il popolo aveva una eccezionale energia dentro. Ma attenzione. Qui dove c’è oggi il parco vi era un tempo un quartiere pieno di vita con oltre 4mila abitanti. In un secondo è tutto svanito. Se lei si mette qui a scavare trova ancora le ossa dei nostri morti. Qui sotto c’è l’Hiroshima del ’45, una specie di Pompei del 20esimo secolo. La Promotion hall (oggi conosciuta come Cupola o Dome) era un vanto per la città, per la sua bellezza, disegnato da un architetto ceco Jan Letzel. Là dentro sono morti tutti bruciati, erano a poche centinaia di metri dall’epicentro”.
Che tipo di messaggio per le prossime generazioni?
“Le armi atomiche sono il male e non le avremmo dovute mai creare. Molta gente non sa cosa sia successo veramente qui ad Hiroshima sulle persone. Attenzione questa tragedia potrebbe accadere anche a voi ed alle vostre famiglie”.
Giuseppe D’Amato Fine Parte 2/3. – serie “L’eredità della Seconda guerra mondiale”. 65 anni dopo.
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Tokyo. Non sono poche le questioni, rimaste irrisolte dalla fine della Seconda guerra mondiale, che creano ancora oggi difficoltà nei rapporti tra gli Stati e che cercano ora soluzione. Le scuse degli Usa per i bombardamenti atomici del ’45 sulle città giapponesi e l’uso delle basi militari ad Okinawa sono tra queste nell’agenda nippo-americana come lo è il nodo delle isole Curili con la mancanza della firma di un trattato di pace tra Tokyo e Mosca.
Nel novembre 2009 il presidente Obama, in visita in Giappone, rispose con un secco “no comment” ad una domanda sulle scuse, promettendo, però, di visitare Hiroshima e Nagasaki prima della conclusione del suo mandato. Washington intende comprendere se il Paese del Sol levante può continuare ad essere il suo principale alleato in Asia. Dopo il crollo del partito democratico-liberale, al potere a Tokyo per oltre mezzo secolo, i nuovi governanti nipponici sembrano non più fedeli alla precedente linea politica. La ferita per la presenza delle basi americane sanguina talmente che, in giugno, il premier Hatoyama ha dovuto presentare le dimissioni dopo che era stato costretto ad ammettere che non avrebbe potuto mantenere alcune sue promesse elettorali su Okinawa.
Nel 1951, contemporaneamente al trattato di pace di San Francisco, Usa e Giappone firmarono un accordo di mutua cooperazione e sicurezza, poi perfezionato negli anni, che garantisce il cosiddetto “ombrello americano”. In pratica, alla difesa dell’arcipelago ci pensano i nuovi amici d’oltreoceano, che segretamente – con l’assenso del governo giapponese in violazione della Costituzione locale – hanno dislocato nelle proprie basi armi atomiche. Perlomeno questo è stato reso noto in un dossier pubblicato durante il premierato di Hatoyama.
47mila sono oggi i militari statunitensi, principalmente ad Okinawa, usata negli anni Cinquanta per la guerra in Corea, ed oggi maggiore centro del Pentagono in Asia. Da qui si controlla una larga fetta del continente e soprattutto la Cina. La convivenza tra giapponesi ed americani in queste isole subtropicali da favola non è mai stata facile, ma i soldati a stelle e strisce hanno portato sviluppo e soldi. Nel 2006, per venire incontro alle richieste della popolazione locale, i due governi si sono accordati per ristrutturare, riducendo una delle basi di Okinawa, quella di Futenma, e di trasferirla in parte alla baia di Henoko. Dopo questo momento è iniziata una lunga serie di incomprensioni con una clamorosa dimostrazione di protesta in maggio con migliaia di isolani, che, forse, ce l’avevano più con Tokyo che con Washington.
I sondaggi segnalano che l’opinione pubblica nipponica vorrebbe una ridiscussione degli accordi con gli statunitensi, pretendendo dai propri rappresentanti meno dipendenza dalla Casa bianca. “Per gli americani – dice Motofumi Asai, presidente dell’Istituto per la pace di Hiroshima, – è naturale che Tokyo sia d’accordo con le proprie decisioni anche perché gli Esecutivi nipponici non hanno mai detto niente”. “Il neopremier Kan – osserva, invece, Nurushige Michishita dell’Istituto di Scienze politiche – dovrà convincere i giapponesi, ma soprattutto quelli di Okinawa che le truppe Usa sono necessarie per la difesa del Paese, ma non sarà facile”. I lanci missilistici della Corea del Nord e la costruzione della Flotta cinese lo testimoniano
. Anche a queste latitudini la logica “sì, vabbene, ma non nel mio cortile” la fa da padrona. “Ma alle Ryukyu Shoto (tristemente famose per essere stato teatro di una delle battaglie più cruenti della guerra del Pacifico) – sostiene Koichi Nakano della Università Sophia – altri insediamenti americani non sono benvenuti dalla popolazione locale”.
Okinawa è stata la “Waterloo” di Hatoyama, considerato il “Kennedy dell’Asia”. Dopo le elezioni di medio termine in Usa in novembre Obama dovrà risolvere questa grana non semplice. Nel frattempo, ha mandato in avanscoperta i propri uomini in segno di buona volontà, tra questi l’ambasciatore Roos alle cerimonie per la commemorazione del bombardamento atomico di Hiroshima. E’ stata la prima volta in 65 anni che il governo Usa ha presenziato ufficialmente. Già questo è un passo significativo.
Giuseppe D’Amato – Fine Parte 1/3. – serie “L’eredità della Seconda guerra mondiale”. A 65 anni dalla sua conclusione.
“Sevastopol belongs to Ukraine, but hardly anyone here is Ukrainian. Two rival fleets ride at anchor in its majestic harbour. Two rival flags fly from its public buildings… the city has gone from being a sort of Stalinist Sparta, austere and warlike, to a seaside Babylon of pizzerias and nightclubs…. Ukrainians force Russians to turn their back on their language and change their names”.
Article – Daily Mail (UK)
See also : Кому принадлежит Севастополь? EuropaRussia; Ucraina-Russia. Sebastopoli alla Flotta del Mar Nero per altri 25 anni EuropaRussia.
Moscow and Oslo signed an agreement on their maritime border in the energy-rich Barents Sea, ending a dispute that has dragged on for decades. The disputed territory covered 175,000 square km (67,600 sq miles), an area about half the size of Germany, mainly in the Barents Sea between proven petroleum reserves on the Russian and Norwegian sides.
Canada, Russia, Norway, the United States and Denmark — the only nations with Arctic coastlines — are racing to file territorial claims over oil, gas and precious metal reserves that could become more accessible as the Arctic ice cap shrinks. International law states that the five have a 320 km (200 mile) economic zone north of their borders, but Moscow is claiming a larger slice based on its contention that the seabed under the Arctic is a continuation of its continental shelf. “Our sector in the Arctic is estimated to contain up to 100 billions tons of resources,” Natural Resources Minister Yuri Trutnev said.
Russia and Norway have already begun tapping mineral riches buried beneath the Barents Sea. Norwegian oil company Statoil brought its Snoehvit natural gas field on line in 2007. Meanwhile, Russia’s Gazprom, in conjunction with Statoil and France’s Total, is developing the Shtokman gas field.
The deal is expected to boost energy cooperation between the two countries, as it paves the way for the lifting of a 30-year-long moratorium on oil and gas extraction in the disputed zone. “Undoubtedly, this treaty will make a substantial contribution to strengthening the legal regime in the Arctic, based on the 1982 UN Convention on the Law of the Sea, and to supporting the atmosphere of peace and cooperation there,” a source in the Russian presidential administration said.
Norway has urged Canada to negotiate and settle their disputes with Russia to decrease existing tensions over sovereignty in the Far North.
Article – The Guardian (UK) September 15th, 2010.
«Что будут представлять собой учебные центры, которые предлагают создать на территории Киргизии Россия и США, пока не совсем ясно. В американской печати появились сведения только о новой базе Пентагона.
Соглашение о создании авиабазы ВВС США в аэропорту «Манас» было заключено между Вашингтоном и Бишкеком в декабре 2001 года по мандату ООН для помощи антитеррористической операции «Несокрушимая свобода», которую США проводят в Афганистане совместно с Международными силами содействия безопасности этой стране (ISAF) и боевых операций коалиционных сил.
У России тоже есть свои интересы в Киргизии. Как геополитические, так и экономические, военно-технические и чисто военные. Недалеко от Бишкека, возле города Кант находится 999-я российская военная авиационная база, где дислоцируются почти полтысячи военнослужащих и два десятка фронтовых бомбардировщиков, штурмовиков, истребителей и вертолетов Су-24, Су-25, Су-27 и Ми-8, а также учебные Л-39. Эти самолеты и их экипажи входят в Коллективные силы оперативного реагирования (КСОР) Организации Договора о коллективной безопасности (ОДКБ).
Есть у России к Киргизии и другой интерес. Назовем его – деловым. В республике расположено предприятие, которое в советские и постсоветские времена серийно выпускало ракетно-торпедное вооружение для кораблей отечественного ВМФ. Знаменитый завод «Дастан», на акции которого (48 процентов) претендуют российские оборонщики.
Китай никак не проявил себя во время беспорядков в Бишкеке, Оше и Джалал-а-баде. Только высказал свою озабоченность погромами и гибелью людей. Пекин, готовый смириться с традиционным влиянием Москвы в этом регионе, очень ревниво относится к попыткам закрепиться здесь со стороны Вашингтона»
Статья – Виктор Литовкин – Независимая газета – 17.09.2010
Sono ormai lontani i tempi in cui la bandiera cecena sventolava sicura sulla piazza del Mercato a Cracovia. La Polonia ha oggi cambiato politica verso la Russia, assecondando sia una naturale esigenza geopolitica dopo decenni di incomprensioni sia richieste sempre più pressanti da parte della sua imprenditoria. L’incidente aereo di Smolensk nello scorso aprile, in cui è scomparsa un’importante fetta dell’establishment di Varsavia, è stato la triste occasione per un avvicinamento, definito da non pochi osservatori come “storico”. Tali scelte della dirigenza liberale Komorowski-Tusk sono, però, avversati dai partiti nazional-conservatori, che gelosamente conservano i tradizionali sentimenti anti-moscoviti.
In questo quadro si sviluppa la vicenda Zavkayev. Il leader dell’ala moderata del separatismo caucasico, a cui è stato garantito dalla Gran Bretagna lo status di profugo, è stato fermato a Varsavia per un ordine d’arresto dell’Interpol su richiesta russa, mentre si apprestava ad intervenire al Congresso mondiale dei ceceni. Un Tribunale l’ha immediatamente messo in libertà e nei prossimi 40 giorni verrà deciso il daffarsi. Mosca sta preparando i documenti per l’estradizione di uno dei suoi maggiori nemici.
Zavkayev è un politico esperto e non ha di certo sottovalutato i rischi di un suo viaggio in continente. In Cecenia da tempo vige la “pax russa” e la ricostruzione avanza a ritmi impressionanti. La repubblica, diretta col pugno di ferro dal clan dei Kadyrov, è uno dei soggetti che ricevono maggiori fondi dal Centro, nonostante nell’aria si respiri un’autonomia di fatto dal Cremlino. Il moderato Zavkayev sta probabilmente tentando di riaccendere i riflettori dei mass media internazionali sul suo Paese.
Il premier Tusk ha dichiarato che Varsavia considererà i “suoi interessi nazionali” nella vicenda. La sensazione è che i suoi avversari interni gli abbiano teso una trappola per silurare le recenti aperture ad Est e Zavkayev, forte del sostegno di ampi settori del Dipartimento di Stato Usa, abbia ricevuto assicurazioni da “amici” fidati in Polonia prima del viaggio d’oltremanica.
Summary by RUVR
Official speech writing and video. US Department of State. September 8th, 2010.
The base was opened in December 2001 to support U.S. military operations in the ongoing war in Afghanistan. It has hosted forces from several other International Security Assistance Force member states as well. The base is a transit point for US military personnel coming and going from Afghanistan.
Transit Center at Manas (formerly Manas Air Base and unofficially Ganci Air Base) is its official name. It is located at Manas International Airport, near Bishkek, primarily operated by the U.S. Air Force.
In February 2009 the Kyrgyz Parliament voted to close the base after the two governments failed to agree on a higher rent for the property. American and Kyrgyz officials continued negotiations after the announcement, and on 23 June a tentative agreement was reached. Under the new arrangement the United States will pay $60 million for continued use of the facilities, three times the previous rent.
Article – RFERL – September 2010.
We are a group of long experienced European journalists and intellectuals interested in international politics and culture. We would like to exchange our opinion on new Europe and Russia.