La questione Fiat piomba nella campagna elettorale per le presidenziali di domenica 20 in Polonia. Jaroslaw Kaczynski, candidato conservatore di Legge e Giustizia, ha invitato il governo Tusk ed il ministro dell’Economia Pawlak ad intervenire presso l’Esecutivo italiano. “Se diventerò capo dello Stato – ha sottolineato davanti ai cancelli della Fiat polacca il fratello-gemello del presidente Lech, morto nell’incidente aereo di Smolensk il 10 aprile scorso, – farò sentire la mia opinione su questi argomenti”.
Jaroslaw Kaczynski ha ricordato che di solito i leader europei si consultano spesso tra di loro sulle questioni più diverse. Varsavia dovrebbe ora far valere, con forza, la propria posizione come in simili occasioni hanno fatto la cancelliera Merkel o il presidente francese Sarkozy in difesa delle proprie aziende nazionali.
Come risposta, il ministro Pawlak ha annunciato di aver ottenuto assicurazioni dalla Auto Fiat Poland che non vi saranno perdite di posti di lavoro. Stando al piano strategico della società torinese, lo stabilimento di Tychy, il maggiore del gruppo in Europa, perderà – a vantaggio di Pomigliano d’Arco – la produzione della Panda, che, nel 2009 con 298mila unità, ha rappresentato quasi la metà dei modelli usciti (606mila) da questo impianto gioiello di automazione. A Tychy si dovrebbe passare alla produzione della Lancia Ypsilon, che, però, non ha lo stesso mercato della Panda. Lo stesso vale per la Seicento.
“I politici italiani saranno adesso contenti”, scrive già polemicamente l’autorevole quotidiano Gazeta Wyborcza. La paura che qualcosa vada storto è ben presente tra i sindacati e i lavoratori, ma si ribadisce un secco “no” ad una guerra tra poveri con i colleghi italiani. In passato sull’asse Germania – Belgio si è combattuto lo scontro per l’Opel e su quello franco-romeno lotte sindacali alla Renault-Dacia.
Se si andrà, come pare, al ballottaggio tra Komorowski e Kaczynski, il 4 luglio, il risultato del voto di Pomigliano d’Arco e le scelte della Fiat saranno argomento terreno di battaglia in Polonia.
Vincere ampiamente le elezioni con un netto incremento di seggi, ma non avere i voti sufficienti per creare una coalizione di governo. Questa è la situazione creatasi dopo le legislative di sabato 12 giugno. Il premier uscente Robert Fico tenterà di trovare una soluzione, ma gli osservatori sono pessimisti sulle sue possibilità di riuscita.
I 4 partiti di centro-destra hanno ottenuto 79 dei 150 seggi. I socialdemocratici (SMER) sono stati pesantemente danneggiati dal pessimo risultato degli alleati: il “Movimento per una Slovacchia democratica” dell’ex primo ministro Meciar, ad esempio, non è nemmeno riuscito a superare la barriera del 5% per entrare in Parlamento. “Se non troverò convergenze – ha osservato Fico ricevendo il mandato presidenziale – accetterò la situazione”.
Iveta Radicova, leader dei cristiani democratici (SDKU), potrebbe essere, quindi, la prima donna premier del Paese slavo. Anche lei avrà a che fare con alleati non facili. “Libertà e Solidarietà” dell’economista Richard Sulik ha nel suo programma la depenalizzazione della cannabis per motivi medici e i matrimoni tra persone dello stesso sesso
L’obiettivo dichiarato di SDKU (al potere dal 1998 al 2006) è far ridiventare la Slovacchia una delle “tigri” d’Europa. Primi compiti: ridurre il deficit e la disoccupazione. La sua è una ricetta di stampo liberista. I conservatori hanno già affermato di non volere pagare la quota Ue di 800 milioni di euro per aiutare la Grecia.
La crisi economica con l’aumento del debito statale, i difficili rapporti con la minoranza ungherese ed uno scandalo sul finanziamento di SMER sono stati i temi centrali della campagna elettorale.
Il Pil slovacco è sceso del 4,7% nel 2009, ma nel 2010 dovrebbe crescere del 2,7%. Il Paese slavo ha adottato l’euro nel 2009 ed ha uno standard di vita pari al 72% della media europea. Il deficit sul Pil è stato del 6,8% nel 2009.
La numerosa minoranza ungherese ha tirato un sospiro di sollievo per la mancata completa vittoria di Fico, le cui ultime decisioni hanno provocato parecchie incomprensioni con Budapest.
Risultati
Partito |
Percentuale |
Seggi |
SMER | 34,79% | 62 |
SDKU | 15,42% | 28 |
Libertà e Solidarietà | 12,1% | 22 |
CDM | 8,52% | 15 |
Most-HID (minoranza ungherese) | 8,12% | 14 |
SNP | 5,07% | 9 |
Affluenza 58,83%
Giuseppe D’Amato
Suona fortissimo l’allarme nelle cancellerie ex sovietiche ed in molte occidentali. Il Kirghizistan è sull’orlo della guerra civile. Il presidente kazakho Nazarbaiev pone i problemi del vicino al primo posto della sua agenda. I russi si stanno mobilitando, i cinesi lanciano appelli alla calma. Alcuni esperti indipendenti non escludono il prossimo intervento di truppe del patto di Shanghaj (di cui fanno parte 5 repubbliche ex sovietiche oltre alla Cina).
Il governo di Bishkek ha decretato lo stato di emergenza ed il coprifuoco nella regione di Osh, dove si sono registrati, nella notte tra giovedì e venerdì, gravissimi scontri interetnici tra kirghisi ed uzbechi, ed ha dispiegato truppe corazzate anche se in numero insufficiente. Dopo l’apparente calma della giornata di venerdì, col buio gli scontri interetnici sono ripresi, mentre le forniture di energia elettrica e gas sono state interrotte. Sabato si è sparato all’impazzata, mentre in numerosi quartieri sono apparse le barricate. Disordini sono avvenuti, sabato, anche nella capitale distante 600 chilometri dall’epicentro degli scontri. Domenica l’Esecutivo kirghiso ha dato ordine alle truppe fedeli di sparare per uccidere su chi gira armato.
Osh è letteralmente divisa in due: l’est kirghiso, l’ovest uzbeco. Decine sono i morti accertati e quasi un migliaio i feriti. Si combatte anche in altre località del sud del Paese asiatico, ma le notizie sono estremamente frammentarie. Migliaia di profughi si sono assiepati alla frontiera con l’Uzbekistan nel tentativo di fuggire. L’Esecutivo provvisorio a Bishkek ha chiesto ufficialmente alla Russia aiuto e l’invio di unità di paracadutisti.
Il Cremlino teme di impelagarsi in uno scontro interetnico, ma comprende la gravità della situazione. Dalla valle di Ferganà si controlla l’accesso all’Asia centrale dalle zone montagnose del sud, dall’Afghanistan. Nel 1990 ad Osh si ebbe un massacro le cui conseguenze furono a fatica controllate dall’Urss di Gorbaciov. Lunedì 14 è stata indetta una riunione d’emergenza del Consiglio di sicurezza dei Paesi del patto di Shanghaj.
La leader provvisoria kirghisa Otunbaieva denuncia il tentativo di evitare il referendum costituzionale del 27 giugno. Ma l’indigesto cocktail di problemi socio-economici irrisolti – mischiati a questioni interetniche e politiche – rischia di far esplodere l’intera Asia centrale.
Articolo – EuropaRussia – 9 aprile 2010. Situazione fuori controllo – YouTube.
Aggiornato 13.06.2010 – h.19,00 Mosca
Nel corso del 1989 in Kirghisia nacquero diverse società di costruzioni che miravano ad ottenere terre da edificare attorno alla capitale Frunze (Bishkek) ed alle altre principali città del Paese. Ad Osh la principale compagnia era la “Oshaimagy”, che, il 7 maggio 1990, chiese di poter disporre dei terreni facenti parte del kolkoz “Lenin”, in gran parte appartenente a lavoratori uzbechi.
Come tutta risposta gli uzbechi chiesero di poter costituire un’autonomia locale uzbeca e la concessione dello status di lingua di Stato all’uzbeco.
Il 4 giugno bande di kirghisi ed uzbechi si scontrarono sulle terre contese del kolkoz. La polizia aprì il fuoco. Ad Osh iniziarono subito disordini: saccheggi, incendi, violenze generalizzate contro gli uzbechi. Lo stesso accadde nella città di Uzgen ed in numerose zone rurali. Solo il 6 giugno le truppe sovietiche riuscirono a riportare l’ordine. In precedenza era stato fermato l’arrivo da alcuni villaggi uzbechi l’arrivo di facinorosi.
Secondo le sottostimate cifre ufficiali negli scontri morirono circa 300 persone, oltre un migliaio i feriti, centinaia le case distrutte. Gli studiosi indipendenti ritengono che il numero esatto di vittime sia di 5-6 volte superiore.
Un esempio per tutti i Balcani. Lubiana e Zagabria stanno tentando di risolvere civilmente l’annosa disputa per i confini che si protrae dal 1991, ossia dallo scioglimento della Jugoslavia. In un referendum gli sloveni hanno approvato di affidarsi ad un arbitrato internazionale: 51,5% i “sì”, 48,5% i “no”. L’affluenza alle urne si è attestata al 42,2%.
In questi anni il governo di Zagabria ha chiesto a più riprese di dividere il mare davanti alla baia di Pirano a metà, mentre Lubiana, che ha solo 46 chilometri di costa, si è sempre opposta a ogni tipo di spartizione che potesse mettere in pericolo il suo accesso diretto alle acque internazionali nel nord dell’Adriatico attraverso il porto di Capodistria.
Molto positivi sull’esito del referendum sono i commenti delle dirigenze dei due Paesi in causa e dell’Unione europea. Grazie a questa consultazione popolare si sbloccano indirettamente i negoziati di adesione all’Ue della Croazia, che mira a diventare il ventottesimo Stato dell’Europa unita entro il 2012. Zagabria ha aperto con Bruxelles 30 capitoli negoziali e ne ha chiusi 18.
Per evitare risultati poco incoraggianti, ottenuti con l’entrata di Romania e Bulgaria nel 2007, sarebbe, tuttavia, auspicabile che la Commissione europea non abbassi gli standard richiesti per le adesioni. Bruxelles volge il suo sguardo all’intera area balcanica, dove odii atavici e spargimenti di sangue l’hanno fatta da padrone per secoli e dove, negli anni Novanta, si sono rivissute tragedie ed atrocità che il Vecchio Continente sperava di aver dimenticato dopo la fine della Seconda guerra mondiale. La fretta potrebbe essere una cattiva consigliera quanto lo è stata con l’adesione alla moneta unica di Paesi che non erano pronti. Ad un certo punto, prima della complessa pratica balcanica, si potrebbe pensare ad un percorso accelerato per l’Ucraina, Paese attraverso il quale passano gran parte delle strategiche forniture di energia all’Europa.
L’Italia osserva con estremo interesse la disputa sloveno-croata. Il porto di Capodistria ha conosciuto nel corso degli ultimi anni una progressiva crescita della quantità di merce trattata. Qui fanno capo i traffici commerciali via mare di Paesi dell’Europa centro-orientale privi di sbocchi sul mare, quali Austria, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia. Nel 2008 il porto di Trieste è stata sorpassato da quello vicino per numero di teu (containers) movimentati. La Regione Friuli Venezia Giulia ha dato, però, parere non positivo all’ampliamento dello scalo di Capodistria per una lunga serie di ragioni.
Il rispetto delle regole comunitarie è l’unico modo per evitare che la Casa europea, sognata dai “Padri fondatori” continentali, non si trasformi in un litigioso condominio.
Giuseppe D’Amato
Cartina dal sito Peacereporter.net
Sorprese a non finire nelle elezioni legislative in Repubblica ceca. I partiti di centro-destra hanno vinto la consultazione. I social-democratici (CSSD) sono sempre la prima compagine del Paese, ma non sono andati oltre il 22% di preferenze. Gli specialisti in sede di sondaggio assegnavano loro il 30%. Jiri Paroubek ha così lasciato la segreteria del Partito.
I democratici civici (ODS) hanno riportato il 20,2% dei voti, i conservatori di TOP09 (dell’ex ministro degli Esteri Karel Schwarzenberg) il 16,7, i centristi di Affari pubblici (VV) il 10,9%. Ci vorranno settimane di incontri per formare il nuovo Esecutivo, prevedono gli esperti, e solo un accordo di coalizione potrà portare stabilità. Le tre compagini insieme detengono 118 seggi. Il Toto-premier, nel frattempo, è già iniziato. Sarà il presidente Klaus l’ago della bilancia.
I temi più dibattuti della nervosa campagna elettorale sono stati il problema del taglio del debito statale e la riforma delle pensioni. La stampa praghese ha definito queste consultazioni come le più combattute ed appassionanti elezioni di sempre. 25 partiti con 5mila candidati hanno lottato per i 200 seggi della Camera bassa del Parlamento. L’affluenza alle urne è stata del 62,1%
In queste elezioni ha vinto il messaggio “facciamo il possibile per evitare uno scenario in Grecia”. I partiti di centro-destra vogliono tagliare le spese e lottare in modo più efficace contro la corruzione. Nel 2009 il Pil è sceso del 4,1%, mentre nel primo quadrimestre del 2010 è salito dell’1,1%.
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La riduzione del debito è l’obiettivo comune a tutta l’Europa centrale. In un report, edito all’inizio del maggio, la Commissione europea segnala il caso dell’Ungheria, già aiutata con 20 miliardi di euro: Budapest, si afferma, deve ridurre le spese per evitare amare ed inattese sorprese.
Le economie romena (dove gli statali hanno subito pesanti decurtazioni di stipendi) e bulgara appaiono ferme. La prima aumenterà dello 0,8% dopo un terrificante -7,1% nel 2009 (con un deficit di bilancio pari all’8% del Pil), la seconda rimarrà intorno allo zero. I fondi europei, che avrebbero potuto permettere di disporre di capitali per la crescita, sono praticamente bloccati per problemi legati alla corruzione in questi due Paesi.
I dati provenienti dalla Lettonia e dalla Lituania sono anch’essi poco rassicuranti. Le “tigri” del Baltico si sono letteralmente piantate. La grande incertezza sul futuro, le condizioni finanziarie sfavorevoli e la stretta fiscale sono indicate come le cause di questa realtà davvero nera. Il Pil lettone segnerà nel 2009 -3,5%, mentre quello lituano -0,6%. La frenata nel 2009 è stata, però, molto più brusca.
Nečas talks election – Prague Post –
Il Medio Don continua a restituire cimeli di un passato ormai lontano, ma mai dimenticato. Qui quasi centomila nostri ragazzi immolarono la loro vita in una guerra sbagliata. “Abbiamo – dice con la voce piena di soddisfazione al telefono da Rossosch il professor Alim Morozov – 5 piastrine, che, purtroppo, non sono in buone condizioni e a fatica si lasciano decifrare. Siamo pronti ad inviarle alle famiglie dei caduti o a lasciarle in esposizione al museo”.
Una appartiene certamente ad un alpino, le altre sono di fanti o di militari del Genio. In località Tropilo, dove si ergeva la linea di difesa della Divisione Cuneense, è stata rinvenuta quella di Pietro Bressano, classe 1916, Primo reggimento alpino, 11esima compagnia, matricola 529/79/915. Due altre sono state ritrovate a Novaja Kalitva.
Alim Morozov è il maggior specialista russo della campagna del Don, una vera leggenda per i tanti italiani venuti a Rossosch: chi a rivedere i luoghi dove aveva combattuto in gioventù chi a portare un fiore in una terra lontana che si è presa per l’eternità un proprio caro.
“Sono sempre stato mosso – spiega il professore – dalla curiosità di sapere cosa fosse successo ai miei conoscenti”. Morozov, che allora aveva 10 anni, visse per mesi a contatto di gomito con gli italiani, che poi rivide passare mestamente per le strade della sua città verso la prigionia dopo l’avanzata sovietica.
“Sulle battaglie si è già scritto tanto e probabilmente non si aggiungerà niente di nuovo – precisa Morozov -, ma è il lato umano quello che va ancora studiato, i rapporti tra la gente”. Il professore sta preparando un secondo volume, dal titolo “La mia scoperta dell’Italia”, in uscita tra la fine del 2010 ed il 2011 – se verrà trovata una casa editrice russa disposta a sostenere le spese di pubblicazione -. Il suo primo bellissimo libro con prefazione di Mario Rigoni Stern è stato tradotto in italiano in due edizioni dal Museo di Rovereto.
Morozov è un fiume in piena quando parla di tutte le storie che conosce. Le sue parole a fatica riescono a trasmettere i sentimenti reali di quel mondo di umanità uscito prostrato dalla barbarie della guerra. La vicenda più commovente è certamente la storia di un amore tra un dottore italiano Giacomo e la sovietica Nina, troncata dopo la fine della guerra per l’intervento della polizia politica di Stalin.
MUSEO MEDIO DON Rossosch – Russia – sito in allestimento
Vedi anche DonItalia in EuropaRussia, Qui Museo del Medio Don.
Nikolajewka. La tragedia del Don. EuropaRussia.
La battaglia della memoria. EuropaRussia
DATI PIASTRINE
1. 33813 22 Zerboni Natale, Cl. 1914. Di Ettore e Toqnacca Maria. Zelbio Veleso, Como
2. Matr. 529\79\915\ Bressano Pietro, Cl. 1916. 1 Rgt. Alp. 11 comp. Monastero Vasco. Trovato Topilo.
3. 74 87 – 55 C Bigoni Adriano, Cl. 1919. Di Giuseppe e Maselli Laura. Ferara. Trovato v. Donscoi. (Vicino Nuova Kalitva).
4. M 36 36 … Amisano Evasio? Cl. 1916. 4 Rgt. Genio. Rasignano. Trovato v. Donscoi. (Vicino Nuova Kalitva).
5. 25886(43) Ferrary Pietro, Cl. 1922. 90 Rgt. Fant. Di Pietro e di Facchetti Francesca. Dello Bresia
L’evento è stato organizzato con l’ausilio dell’Ambasciata svizzera di Mosca, del Canton Ticino e di ProHelvetia nel quadro delle manifestazioni dedicate all’“Anno del Ticino in Russia”.
La mostra è divisa in due sezioni, denominate “tappe dello sviluppo” e “principali protagonisti” (dove sono compresi i lavori più importanti degli ultimi 30 anni).
Curatrice dell’esposizione è Graziella Zannone Milan.
26 maggio – 8 giugno – Central House of Artists (Krymsky val, 10). – Moscow.
La crisi dell’euro ha evidenziato ancora una volta la debolezza dell’economia russa, che dipende troppo dalle oscillazioni del prezzo del petrolio. Cambiare la sua struttura è un’opera titanica ed epocale. Il duo Medvedev – Putin ci sta provando con varie iniziative di diversificazione.
Il 40% circa delle entrate dello Stato russo provengono dal settore energetico, da sempre croce e delizia dell’ex superpotenza. La copiosa pioggia di valuta, messa da parte durante il boom energetico degli anni passati, si è ridotta sensibilmente. Uno dei due Fondi di stabilizzazione – dove erano state accumulate svariate centinaia di miliardi di dollari, ha dichiarato il ministro delle Finanze Aleksej Kudrin, si è già estinto. Dopo un decennio Mosca è così tornata in aprile ad offrire con successo obbligazioni (4 miliardi di eurobond) sul mercato internazionale.
Kudrin si batte per la riduzione delle spese statali che, entro il 2015, dovranno scendere del 20%. Il bilancio del 2010, ha spiegato il ministro, sarà equilibrato se il prezzo del petrolio sarà in media di 95 dollari il barile, “tenendo presente che stiamo anche spendendo capitali dal Fondo di riserva”.
La sua collega dell’Economia Elvira Nabiullina prevede 76 dollari al barile per tutto il 2011, una cifra azzardata e troppo ottimistica per Kudrin che ha ricordato come nel 2009 il bilancio statale era calibrato sui 95 dollari mentre il prezzo reale fu di soli 61 dollari. In questa aspra discussione è addirittura intervenuto il presidente Medvedev che si è augurato 70 dollari al barile, in maniera tale che la Russia non “perderà gli stimuli” per cambiare la sua economia.
Il Cremlino ed il governo tentano di dare impulsi ad altri settori. Nel mirino vi sono ora le alte tecnologie con l’obiettivo di costruire una specie di “Silicon Valley” alle porte di Mosca. Ingenti investimenti in tal senso sono già stati fatti. Sono state anche attuate modifiche legislative per invitare giovani scienziati stranieri in Russia e riportare i propri a casa dopo la fuga successiva al crollo dell’Urss.
Per la prima volta dal 2008 l’economia ha dato, comunque, segnali di espansione nei primi tre mesi del 2010. Il Pil è cresciuto di circa il 2,9% rispetto allo stesso periodo del 2009, quando la ricchezza russa arretrò di ben il 7,9%, la maggiore discesa dal 1991.
Il premier Putin ha dichiarato di non essersi pentito dell’enorme quantità di denaro spesa per battere la recessione e “per conservare la stabilità socio-economica”. Secondo alcuni calcoli Mosca avrebbe iniettato nella propria economia 99,6 miliardi di dollari in “misure stimolo”. L’impennata del prezzo delle materie prime ha aiutato decisamente la Russia ad uscire dalle secche. Un dollaro in più di quotazione dell’“oro nero” significa 2 miliardi in più nelle casse del Cremlino.
Il governo ha ora come obiettivo l’abbassamento dell’inflazione sotto al 10% ed arrivare alla riduzione del deficit al 3% del Pil entro il 2012 (oggi 5,2-5,4%). Ma se il prezzo del petrolio sarà mediamente di 50 dollari allora il rischio è di trovarsi a ben l’8%.
Le grandi compagnie russe hanno riguadagnato terreno dopo le enormi difficoltà incontrate a cavallo tra il 2008 ed il 2009 anche grazie a prestiti ad un basso tasso di interesse. La Banca centrale ha tagliato il costo del denaro 13 volte consecutivamente. L’AvtoVAZ, la Severstal e la Mechel, ad esempio, hanno potuto aumentare la produzione. La spedizione di containers e la produzione industriale sono cresciute notevolmente segno che l’economia è veramente ripartita.
La crisi dell’euro e la conseguente brusca discesa del prezzo del petrolio sono giunte inaspettate per Mosca, che ha immediatamente adottato misure per limitare il movimento di capitali a breve termine. Il Cremlino sa perfettamente che se il valore del greggio scenderà il rublo rischierà di trovarsi sotto attacco della speculazione internazionale.
Nel mare increspato continentale è la sorprendente Polonia ad apparire come un’isola di stabilità. La sua economia ha affrontato la crisi nettamente meglio di quanto hanno fatto quelle della cosiddetta “nuova Europa”.
Se si segue il flusso di capitali dall’estero in entrata si capisce il perché. Solo nel primo trimestre 2010 il numero di investimenti diretti stranieri è stato di 132 con un aumento sull’analogo periodo del 2009 del 70%. Varsavia è anche la principale beneficiaria dei fondi Ue (tra cui fondi di coesione, fondi per l’agricoltura e fondi per la pesca). Tra il 2007 ed il 2013 ha ricevuto o otterrà ben 81,2 miliardi di euro, una somma pari all’incirca al 3,3% del Pil annuale.
Le ragioni di un tale imponente sforzo continentale hanno anche ragioni storiche e geopolitiche non solo economiche. Alla fine della Seconda guerra mondiale il Paese slavo fu abbandonato al suo destino dagli occidentali. Si è voluto ora, in qualche modo, saldare un debito morale e premiare i meriti conquistati nella caduta della Cortina di ferro. Una Polonia forte e ricca è una garanzia per l’area centro-orientale e la completa saturazione di antiche ferite coi vicini.
A parte queste considerazioni, fare business a Varsavia è conveniente. Le classifiche specifiche e i dati sono chiari: il tasso di corruzione è basso, quello del rischio è più che rassicurante, quello della libertà economica nella media. Le esenzioni fiscali, definite di concerto con Bruxelles, richiamano dall’estero investitori, che, però, devono impegnarsi per assumere personale locale e mantenere i posti di lavoro per almeno 5 anni. Automative, biotecnologie, agricoltura ed infrastrutture sono alcuni dei comparti più in crescita.
Varsavia ha oggi, quindi, l’occasione di ammodernare definitivamente il Paese, uscito prostrato dal periodo comunista, e sta sfruttando al meglio l’occasione. I campionati europei di calcio del 2012 metteranno in vetrina i risultati di questo intenso lavoro e potrebbero essere un ulteriore volano per l’economia nazionale se il comparto turistico inizierà a tirare come molti operatori sperano. Gli aeroporti ed i complessi alberghieri sono stati rimessi in ordine o costruiti, mentre il tallone d’Achille restano le strade.
I fondamentali polacchi sono soddisfacenti. Se nel 2007 il Pil è cresciuto del 6,8% per poi crollare nel 2009 a +1,7, nel 2010 l’aumento è previsto nell’ordine del 2,5-2,8%. Durante la crisi finanziaria del 2008 lo zloty è stato svalutato – salvo poi recuperare posizioni -, mentre le banche nazionali avevano pochi asset tossici.
L’ultima preoccupazione in ordine di tempo è il troppo rapido deprezzamento dell’euro a cui Varsavia ha collegato lo zloty. Aderire alla moneta unica era ormai un obiettivo prossimo tacitamente fissato per il 2012-2013, ossia al termine dell’operazione di rilancio del Paese pianificata nel 2000-2004. L’opinione pubblica ha finora assistito a polemici scontri tra specialisti e politici, con i conservatori fortemente contrari alla cessione di parte della sovranità nazionale a Francoforte. Ma aderire alla valuta continentale significa entrare con tutti e due i piedi nell’Europa del XXI secolo.
Avere i conti in ordine ed un’economia moderna pronta a competere nel mondo globalizzato sono requisiti essenziali, anche per contare nell’Unione europea. L’importante è essere pronti alla realtà post-2013, quando la pioggia di fondi Ue terminerà. Se nel frattempo si è costruito bene non ci saranno timori per il futuro, altrimenti torneranno i vecchi mal di pancia passati.
Giuseppe D’Amato
Almeno due passeggeri non membri dell’equipaggio erano nella cabina dei piloti poco prima dello schianto dell’aereo presidenziale a Smolensk. La Commissione d’inchiesta bilaterale russo-polacca ha comunicato alcuni particolari sulla sciagura del 10 aprile scorso, ma non è ancora arrivata a conclusioni definitive.
Non trova nemmeno una risposta la domanda principale, ossia se i piloti fossero stati messi sotto pressione per atterrare a tutti i costi. Pochi mesi prima, a Tbilisi, un altro comandante dell’aereo presidenziale era stata sollevato dall’incarico per essersi rifiutato di obbedire ad un ordine del genere impartito dallo stesso Lech Kaczynski. Ai comandi del Tupolev a Smolensk vi era il co-pilota della disavventura in Georgia.
Il capo della Commissione tecnica Aleksej Morozov ha affermato che non si capisce bene cosa dicano le voci registrate dalle scatole nere, poiché la porta della cabina di pilotaggio era aperta. O perlomeno è troppo presto per decifrarlo.
I russi continuano a mettere le mani avanti: i piloti erano stati avvertiti della nebbia; l’aeroporto con la sua strumentazione ha accolto anche il velivolo del premier Putin. Insomma: vi sarebbe stato un evidente errore umano.
Mosca ha scelto la politica della massima apertura fiutando i pericoli. Alcuni giornali conservatori polacchi danno voce ad altre versioni: le telefonate coi cellulari fatte dal Tupolev avrebbero potuto provocare la tragedia; qualcuno potrebbe aver messo una bomba, ma non viene presentato nemmeno uno straccio di prova. Sembra quasi un tentativo maldestro di allungare anche su Lech Kaczynski la stessa ombra che permane sul misterioso incidente aereo in cui perse la vita, a Gibilterra nel 1943, l’allora leader polacco Wladyslaw Sikorski.
Alla destra polacca, nazionalista e xenofoba, non è affatto piaciuto l’avvicinamento alla Russia. Sulla stessa linea sono i repubblicani americani e la potente lobby polacca d’oltreoceano, già bruciati dalla cancellazione da parte di Barack Obama del dispiegamento dello Scudo spaziale Usa in Europa centrale.
La rivoluzione nelle tempestose relazioni bilaterali è stata voluta da Vladimir Putin in persona, che, contraddicendo i consigli del proprio ministero degli Esteri, ha deciso di togliere finalmente dal fianco russo una dolorosa spina. Era Varsavia, fin dalla sua adesione all’Ue nel 2004, a creare a Mosca in maggiori problemi in Europa.
In questa inattesa riorganizzazione di equilibri continentali non lascia, quindi, sorpresi la pubblicazione di un fascicolo supersegreto sulla prossima strategia russa da parte di un settimanale moscovita. In altri tempi un bel soggiorno in Siberia sarebbe stato assicurato ai giornalisti. Ed ora invece. La Russia, si dice nel documento, mira ad avvicinarsi all’Ue ed agli Usa per ammodernizzarsi.
Come contro-risposta, questa volta ufficiale, la Nato ha scelto di considerare come una priorità l’avvicinamento al Cremlino. Si è poi appreso che l’Alleanza e la Russia studiano un mini-Scudo comune per la difesa da missili a breve raggio.
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