Quando Boris Eltsin dovette scegliere a chi affidare l’ingrato compito di riformare l’economia russa non ebbe dubbi. Solo i giovani esperti del gruppo di Egor Gajdar avrebbero potuto fare il miracolo. 74 anni di comunismo ed il fallimento di Michail Gorbaciov con il conseguente crollo dell’Urss avevano lasciato soltanto macerie.
Nell’aprile 1991, pochi mesi prima, l’allora premier sovietico Valentin Pavlov aveva messo fuori corso le banconote da 50 e 100 rubli per ridurre la massa monetaria. Alla popolazione non era stato permesso di cambiarle. Come se in una notte non fossero più validi i biglietti da 100 euro. Parte dei conti correnti bancari dei sovietici vennero congelati.
Il 35enne Gajdar, nipote di uno dei più noti scrittori di fiabe per bambini, trovò un Paese in bancarotta, con l’apparato produttivo paralizzato, il tasso d’inflazione alle stelle e con i negozi quasi completamente vuoti. La fame era alle porte. Durante la perestrojka gorbacioviana si era discusso a lungo su come passare da un’economia centralizzata ad una di mercato. Nessuno aveva risposte.
Gajdar si inventò la cosiddetta “terapia shock” che aveva come misura principale la liberalizzazione dei prezzi, quindi la successiva privatizzazione. Queste erano decisioni ultraliberali, che in un sistema, fermo da decenni, provocarono un autentico terremoto economico e sociale. Ma diversamente non sarebbe potuta andare. La scelta era tra morire lentamente o provare strade radicali per garantirsi qualche possibilità per il futuro. Nell’arco di poche settimane il riformista Gajdar diventò uno degli uomini più odiati del Paese.
Con la fine della transizione l’ex premier facente funzioni perse il posto a favore dei funzionari d’apparato. Tentò la carriera politica senza successo. Rimase in disparte come punto di riferimento dei democratici-liberali, tornando agli studi.
Gajdar verrà ricordato non solo come uno dei principali protagonisti della transizione all’economia di mercato nel mondo ex comunista ma anche come uno dei più illustri specialisti russi. Fondamentale è la sua attività scientifica. Gajdar ha fornito le migliori risposte sul perché sia scomparsa la superpotenza sovietica e su cosa debba fare la Russia per evitare la stessa fine.
Ricostituire un impero, cosa desiderata dall’opinione pubblica federale, significherebbe dire addio alla democrazia. Certe nostalgie, che hanno ripreso vigore dopo l’elezione di Putin nel 2000, vanno abbandonate. Gajdar smonta anche la concezione della grande Potenza energetica con dati alla mano. La maledizione petrolifera pende sul Paese. L’Urss è implosa nel momento del crollo delle quotazioni delle materie prime, per l’incapacità di rinnovare il proprio sistema produttivo e per il ritardo tecnologico accumulato.
La Russia ha ereditato gli stessi mali anche se il suo sistema economico oggi è più dinamico. Gajdar indica la strada: democrazia ed integrazione nella comunità internazionale. Se saranno seguite strategie antiquate, che in passato hanno fallito, saranno dolori. Gli inquilini presenti e futuri del Cremlino sono avvisati!
Giuseppe D’Amato
16.12.2009
5 dicembre 2009. Come era nell’attesa della vigilia russi ed americani non hanno purtroppo fatto in tempo. Lo Start, firmato nel lontano ’91, è scaduto senza che sia stato definito un trattato in sua sostituzione.
Mosca e Washington conserveranno per ora “lo spirito dell’accordo” che ha garantito il disarmo internazionale negli ultimi 2 decenni, hanno dichiarato in una nota congiunta i presidenti Medvedev ed Obama.
Il negoziato va avanti da mesi, ma restano ancora alcune difficoltà nonostante gli Stati Uniti abbiano eliminato il maggiore ostacolo rappresentato dal progetto di dislocamento dello Scudo spaziale Usa in Europa centrale.
Il mondo entra così in un periodo di incertezza fino a che non verrà finalmente concordato un nuovo testo e questo sarà ratificato sia dalla Duma che dal Congresso.
In novembre i nodi in sospeso riguardavano in particolare il sistema di calcolo delle armi ed il loro controllo. Pochissime sono le notizie filtrate in questi mesi anche se si sapeva che russi ed americani partivano da posizioni lontanissime che si sono riavvicinate con l’inizio della presidenza Obama.
Perdere questo momento in Russia sarebbe davvero imperdonabile. L’ex superpotenza sta tentando faticosamente di uscire dalla durissima crisi finanziaria che l’ha colpita. I suoi tassi di crescita, per quasi un decennio in forte salita, sono crollati d’incanto. Ma il mercato russo resta uno dei più promettenti al mondo fra quelli emergenti una volta che l’attuale tempesta finisca. La Svizzera ha le carte in regola per giocare una partita impensabile soltanto un paio d’anni fa, quando sembrava che tutto quello che era russo fosse stato toccato da re Mida.
La recente visita del presidente Dmitrij Medvedev nella Confederazione è solo un punto di partenza, non di arrivo. E’ il primo rilevante risultato della politica iniziata con il riconoscimento della Russia come erede dell’Urss nel dicembre ’91.
Negli ultimi 24 mesi la diplomazia elvetica ha segnato numerosi punti a favore nello spazio ex sovietico. Su tutti la complessa mediazione nella secolare disputa tra Armenia e Turchia e soprattutto il ruolo svolto nel dopoguerra russo-georgiano. Berna rappresenta gli interessi di Mosca in Caucaso e viceversa quelli di Tbilisi presso il Cremlino.
Quanto siano dolorosi gli eventi sanguinosi dell’agosto 2008 è comprensibile in particolare dalle generazioni più anziane. Tanti i matrimoni misti. Dopo gli ucraini e i bielorussi i georgiani sono sempre stati considerati dai russi come fratelli. La musica, il mangiar bene, il vino vengono per antonomasia da quelle parti. E’ come se i napoletani un giorno litigassero con il resto d’Italia.
Riuscire a riportare il sereno nei rapporti tra queste due repubbliche ex sovietiche non sarà facile. Servirà un cambio di potere a Tbilisi. Ma agire come arbitri seri e confidenti fidati garantirà possibilità sorprendenti.
Politica ed economia a queste latitudini sono strettamente connesse. Si pensi ai benefici per le imprese tedesche ed italiane ottenuti indirettamente per l’amicizia tra i leader.
La Svizzera ha ora le sue chance. Servono determinazione e conoscenza del mercato in presenza anche di prezzi ridimensionati dalla crisi. Nel 2008 le esportazioni in Russia hanno toccato i 3,18 miliardi di franchi, mentre le importazioni 1,05. Si può compiere un deciso salto di qualità. E’ necessario, però, un piano – perché no, ambizioso – che definisca gli obiettivi primari da raggiungere e la tempistica.
Le imprese farmaceutiche, alimentari e del lusso rosso-crociate hanno importanti fette di mercato, ma si può fare molto di più come possono ulteriormente crescere il turismo e gli investimenti russi nella Confederazione. Per adesso, Mosca si guarda bene dal seguire la strada americana sul segreto bancario elvetico ed in futuro è difficile che lo faccia. Troppe sono le verità sconvenienti per certe élite.
E’ tornato il sereno tra Dmitrij Medvedev e Vladimir Putin. Al Congresso del partito del Cremlino Russia Unita i due leader hanno dato ampia dimostrazione di armonia e compattezza. Nelle scorse settimane il giovane presidente si era lasciato andare a dei commenti e a delle precisazioni che facevano intendere dissapori con il suo amico e predecessore. L’ex leader sovietico Michail Gorbaciov aveva pubblicamente criticato certe considerazioni fuori luogo in un momento così difficile per l’economia federale. Alcuni osservatori erano giunti ad azzardare persino l’inizio di una lunga e tormentata campagna elettorale fino al 2012, data di scadenza del mandato di Medvedev.
A San Pietroburgo le paure dell’establishment si sono dissipate in pochi minuti e si ha per ora la quasi certezza che il duo proseguirà nella coabitazione senza sgambetti. Sapiente è stata la gestione della scena al Congresso con l’intero Paese interessato a scrutare sul futuro. Ambedue i grandi protagonisti sono apparsi insieme sorridenti e a proprio agio come se nulla fosse accaduto. Il presidente ha parlato di politica, il premier di economia.
E’ dall’inaugurazione dell’attuale presidenza, dal maggio 2008 che Medvedev e Putin evitano accuratamente di pestarsi i piedi in pubblico. Al massimo in situazioni separate volano le frecciatine. Gioco delle parti o no, la Russia vive una situazione differente dalla tradizione passata: lo zar od il segretario del Pc od il presidente è sempre stato uno solo, a governare e a decidere. Quando si è vissuto in situazioni di doppio potere il Paese è saltato per aria.
Dopo un primo anno in cui Medvedev è stato tranquillo a svolgere il compitino affidatogli adesso il giovane presidente cerca un suo spazio. Non vuole far passare alla storia il suo mandato come un semplice intermezzo prima della probabile terza presidenza Putin. Sicuramente non gli ha fatto piacere sapere che nella classifica degli uomini più potenti al mondo, stilata dal settimanale Usa Forbes, il suo primo ministro è al terzo posto e lui in Russia è preceduto non solo da Putin ma anche dal suo vice premier ed uomo ombra, Igor Sechin.
La differenza di personalità e di esperienza politica tra i due è notevole. Medvedev è il classico bravo ragazzo, di cui ci si può fidare, ma, in fondo, è un po’ noiosetto. Putin è decisamente più carismatico, è il figlio che tutte le madri russe vorrebbero avere.
Nell’immaginario collettivo il presidente viene associato oggi alla crisi economica, mentre l’attuale premier al boom ed allo sviluppo di inizio secolo. Putin è allo stadio quando la nazionale vince; Medvedev ha commesso il terribile errore di seguire nei giorni scorsi la Russia in trasferta in Slovenia dove la squadra di Hiddink ha perso partita e qualificazione ai mondiali di calcio in Sud Africa.
I mass media, controllati dallo Stato, hanno un ruolo decisivo in questa corsa a chi è più popolare, specialmente in un Paese immenso come la Russia, dove, per adesso si tira un sospiro di sollievo. Il messaggio, che giunge dalle rive della Neva, è uno solo: i due amici di vecchia data hanno riscoperto la simpatia di un tempo aiutati forse dall’aria frizzante di casa.
La Russia ha seguito con estrema attenzione il viaggio del presidente statunitense Barack Obama in Asia ed in particolare la tappa a Pechino. L’asse del mondo si è spostato immancabilmente verso oriente, verso l’area del Pacifico. Ne parliamo con Viktor Kremeniuk, vice direttore dell’influente Istituto Usa – Canada di Mosca, è uno dei massimi esperti in relazioni Est – Ovest.
«Gli Stati Uniti e noi tutti – esordisce il professor Kremeniuk – siamo entrati in una nuova fase di sviluppo. Incerta è la sua direzione. Washington ha assunto da tempo la posizione di leader dell’Occidente, ma nell’ultimo decennio sono apparsi nuovi attori internazionali. Sto parlando in particolare del Bric – Brasile, Russia, India e Cina -, Paesi potenzialmente molto forti, ma non alleati della Casa bianca.
George Bush jr. non voleva vedere questa realtà, che, invece, Obama comprende. Il grande interrogativo è se gli Usa troveranno un linguaggio comune con questo gruppo di Stati senza il quale: primo, non è possibile individuare vie d’uscita per le crisi economico-finanziarie; secondo, non si risolvono i problemi della proliferazione nucleare, della sicurezza e del componimento dei conflitti – mi riferisco alle zone calde, ossia Afghanistan, Iraq, Iran -.
Per farla breve, riusciranno gli Usa ad attrarre il Bric verso il proprio ordine mondiale con delle intese o questi Paesi diventeranno degli avversari? Obama sta provando a tirarli verso Washington. Questo è il suo compito strategico».
Quando nel gennaio 2001 George Bush jr. entrò alla Casa bianca la questione cinese era al primo punto della sua agenda internazionale. Poi è venuto l’11 settembre con le sue conseguenze.
«La Cina è una superpotenza fin dall’inizio della storia. Adesso si sta muovendo. Sono stato a Shanghaj di recente dopo un’assenza di due anni. E’ incredibile la velocità del suo tasso di crescita come è difficilmente comprensibile dove questo Paese si dirigerà. La Cina dà ad intendere seri contrasti tra la sua ideologia e la sua economia in espansione. Fino ad ora il sistema politico ha garantito questi alti tassi, è stato in grado di mobilitare le risorse ed ha definito una strategia di sviluppo adeguato. Ma tutto questo avrà delle conseguenze successive indirette sulla politica, sul ruolo del business. Provocherà lo scontro tra interessi militari per la sicurezza e quelli economici. E quale soluzione si troverà per queste questioni? Se l’accumulo di potenza economica trasformerà il Paese in una grande forza militare allora la Cina sarà un problema per tutti noi. Si dovrà allora pensare a come contenerla. Oppure, al contrario, questo accumulo economico suggerirà ai cinesi di rifiutare la variante militare e di sviluppare quello che loro hanno ossia l’economia, la finanza, l’industria eccetera. Questa scelta non è stata, però, ancora fatta da Pechino».
In Occidente si ritiene che la Russia abbia commesso un grave errore a vendere impressionanti quantitativi d’armi ad un vicino così imprevedibile.
«Non parlerei di errore. Bisognerebbe vedere in concreto cosa è stato dato ai cinesi. Non credo che siano stati consegnati quei sistemi che avrebbero trasformato Pechino in un pericolo per la Russia. Può sembrare cinico a dirsi, ma a noi preoccupano i rapporti sino-americani e la situazione nello stretto di Taiwan. Per ora le forze aeree isolane controllano la situazione sul mare. Cosa succede a terra non importa troppo. Noi aiutiamo i cinesi in cose meno rischiose. Il nodo centrale per la Russia è come influire sulle relazioni sino-americane. I cinesi sono diventati più aggressivi o no? La loro logica è assai lontana da quella europea. Ognuno vive nel suo mondo. Il loro è più antico di alcune migliaia d’anni».
D’accordo, ma la Cina sta sviluppando da alcuni anni la sua Marina militare. Se si fa tesoro del passato questo è il primo passo compiuto da qualsiasi potenza in erba per espandere la propria influenza. Quando scoppia una qualsiasi crisi internazionale la prima domanda che la Casa bianca rivolge al Pentagono è dove si trovino esattamente in quel momento le flotte.
«Per una potenza come la Cina è un po’ umiliante avere nelle vicinanze la presenza della Settima Flotta Usa. Pechino sta cercando di riequilibrare la situazione nonostante non abbia portaerei. Gli esperti militari ritengono, comunque, che ad un pareggio di forze ci siamo già arrivati. Queste decisioni, tengo a precisarlo, non stanno a significare che la Cina si stia preparando ad una guerra».
Giuseppe D’Amato
Cambiare per tornare ad essere una grande potenza, ma diversa dal passato. E’ questa la nuova linea dettata dal presidente russo Medvedev nel suo discorso annuale alla nazione. Il vecchio modello economico sovietico è ormai superato, sono necessarie profonde riforme che aiuteranno lo sviluppo. “Fino a quando il prezzo del petrolio e del gas saliva – ha osservato Medvedev – c’era l’illusione che i cambiamenti strutturali potessero aspettare. Adesso non è più così”.
La crisi economica ha colpito duramente la Russia che, per quasi un decennio, è cresciuta a tassi record di sviluppo. Ma ora le riserve auree si sono notevolmente assottigliate e, per la prima volta dopo anni, si vive con un budget statale in rosso. Più di un milione di persone rischia di perdere il lavoro nei prossimi mesi. Particolarmente grave è la situazione nelle quasi 400 città mono-industriali, nate attorno ad un’unica azienda al momento in crisi.
“E’ indispensabile una modernizzazione multivettoriale”, ha proposto Medvedev, basata sui valori della democrazia. Basta con le nostalgie e le giustificazioni del passato o le accuse all’esterno. Il capo del Cremlino ha proposto una ricetta fatta di innovazione tecnologica, riorganizzazione della scuola e della società, concorrenza vera tra le imprese.
Solo così si potrà creare un Paese non più con “un’economica arcaica”, basata sulle risorse e dipendente dalle esportazioni della materie prime, in cui i leader decidono per il popolo. Nell’ottica presidenziale, se questo progetto di modernizzazione avrà successo la Russia supererà i suoi atavici problemi e finalmente si costruirà “una società di persone libere e responsabili”.
Medvedev ha, quindi, suggerito di mettere mano alla questione dei fusi orari, ben 11 nell’ex superpotenza. Lavorare in un Paese così esteso – vanto ma anche condanna per tanti – è assai difficile. Quando a Vladivostok si dorme a Mosca si è nel pieno della giornata e viceversa. Dagli studiosi si attende una proposta su cui non ci si era messi d’accordo nemmeno all’epoca di Stalin. In passato si era discusso di mantenere solo 4 fusi. La più realizzabile, secondo l’Istituto di Astronomia dell’MGU, è la versione con 8.
Questo del giovane presidente sembra un vero e proprio manifesto per la modernizzazione della Russia. Il nodo centrale è chi possa trasformare in realtà queste scelte piombate dall’alto, ma condivise soltanto da alcune fra le fasce più elevate della popolazione. Quale è la base popolare su cui il Cremlino farà affidamento? I commenti di numerosi esperti indipendenti non sono positivi anche se vi è curiosità.
Il settimanale americano Forbes ha intanto pubblicato la lista degli uomini più potenti del pianeta. Il premier Putin è al terzo posto dopo il presidente Usa Obama ed il cinese Hu Juntao. Medvedev occupa solo la 43esima posizione. Secondo Forbes il presidente russo è preceduto anche da Igor Sechin, vice ed “uomo-ombra” di Putin, responsabile per la politica energetica di Mosca.
Il dubbio è che se questo manifesto fosse stato pronunciato dall’ex capo del Cremlino le possibilità di successo sarebbero state migliori ed ora si potrebbe parlare di tentativo di passaggio epocale per la Russia.
La Moldova è vicina alla paralisi del potere. Per la terza volta in pochi mesi il Parlamento nazionale non è riuscito ad eleggere il presidente della repubblica. La maggioranza centrista può contare solo su 53 seggi. Ne servono 61 su 101. I deputati dell’opposizione hanno abbandonato l’aula. Il candidato proposto, Marian Lupu, è un ex comunista, che attira forti antipatie dagli ex compagni di partito.
Nella precedente legislatura, durata poche settimane, ai comunisti mancava solo un voto per scegliere loro la massima carica del Paese. Dopo lunghe ed interminabili consultazioni, precedute da gravi disordini di piazza, la parola tornò agli elettori. Alle ultime elezioni, tenutesi in luglio, il Pc ha perso il potere e detiene soltanto 48 mandati.
Il rischio è che adesso si torni di nuovo alle urne. Le possibilità di un qualche accordo sono poche come alto è il rischio d’empasse. Entro il 10 dicembre è prevista una seconda votazione parlamentare. Se dovesse andare male ve ne sarà una terza.
In caso di fumata nera le prossime elezioni generali non si potranno tenere prima dell’autunno 2010.
La riforma costituzionale di un sistema elettivo così complicato sarà uno dei passi essenziale per rendere più moderno questo Paese, che resta uno dei più poveri del Vecchio Continente e mira ad una rapida integrazione con l’Unione europea.
Erano quasi 90 mila i cittadini moldavi residenti in Italia alla fine del 2008 e poco più di 100 mila se si considerano i lavoratori per i quali è stata presentata domanda di regolarizzazione: una comunità consistente – la decima per numero di presenze – e che ha nell’Italia un riferimento importante, data anche l’affinità linguistica.
Nel corso degli ultimi dieci anni l’immigrazione di moldavi nella Penisola ha avuto tassi di crescita eccezionali: poco più di 4 mila presenze nel 2001, 38 mila quelle registrate alla fine del 2004, fino agli attuali 100 mila. Solo nel corso del 2008 i residenti moldavi in Italia sono cresciuti di quasi un terzo (30,4%), a fronte di un aumento medio della popolazione straniera residente del 13,4%.
Questi sono i dati della ricerca I moldavi in Italia: situazioni e prospettive, realizzata dalla Caritas Italiana e Fondazione Migrantes in collaborazione con l’ambasciata della repubblica ex sovietica.
Si tratta di un’immigrazione prevalentemente femminile (67% del totale), che conta 15 mila minori iscritti nelle scuole italiane, che ha come punti di riferimento le province di Padova e Roma (entrambe con circa 8 mila residenti) e che vede l’inserimento lavorativo soprattutto nel settore domestico (32%), nell’edilizia (12%) ed in imprese di servizi e pulizie (11%).
Dal punto di vista dell’insediamento territoriale i moldavi in Italia vivono soprattutto nelle regioni del nord ovest (35,2%), seguite da quelle del nord est (27%) e del centro (25,1%). Pochi al sud (9,1%) e nelle isole (3,7%).
Giuseppe D’Amato
Un airbus della compagnia low-cost Winjet ha compiuto un atterraggio di emergenza all’aeroporto nazionale di Minsk. Lo riferisce l’agenzia di informazioni “Belapan”. Un finestrino rotto sarebbe la causa dell’incidente. Nessuno dei 128 passeggeri e dei 5 membri dell’equipaggio è rimasto ferito. Il volo IV 492 proveniente da Forlì era diretto all’aeroporto moscovita di Domodiedevo. Era partito dalla città emiliana alle 12,42. L’atterraggio al Minsk-2 alle 14,51.
Per maggiori informazioni +7495 9336666.
La tanto attesa firma del presidente ceco Klaus è giunta poche ore dopo il via libera della Corte Costituzionale di Praga. L’Alta Corte aveva sentenziato che il Trattato di Lisbona non è in contraddizione con la Legge Fondamentale nazionale. Alla fine di ottobre Klaus aveva ottenuto ufficialmente concessioni ed esenzioni sulla Carta dei diritti fondamentali. Praga voleva garantirsi contro possibili rivendicazioni dei tedeschi dei Sudeti, espulsi dopo la fine della Seconda guerra mondiale nel 1945.
A Bruxelles si è tirato un sospiro di sollievo. I tempi erano ormai ristretti e si rischiava un ulteriore fallimento dopo che una prima Costituzione continentale era stata bocciata in un referendum da francesi ed olandesi nel 2005.
L’Unione europea può darsi ora una nuova struttura più agile ed adeguata alla realtà dei Ventisette. Vengono soprattutto create le figure del Presidente del Consiglio e dell’Alto rappresentante della politica estera. L’Ue avrà per la prima volta propria personalità giuridica, potendo firmare i trattati internazionali. Dopo il 2014 varierà anche il sistema di voto superando il nodo della unanimità.
Bruxelles farebbe bene a fare entrare in vigore il più presto possibile il trattato di Lisbona. Le elezioni presidenziali in Ucraina potrebbero essere il primo impegnativo test di politica estera.
Lo scoglio Klaus sulla strada della definitiva entrata in vigore del Trattato di Lisbona. Manca, infatti, soltanto il suo “sì” dopo l’approvazione da parte degli altri ventisei membri della cosiddetta mini -Costituzione. Il presidente ceco è conosciuto come il capo di Stato Ue più euroscettico del Vecchio Continente. Scalpore aveva fatto il suo incontro in Irlanda nel 2008 con Declan Ganley, capo del movimento “no a Lisbona”.
Ad inizio ottobre, dopo un tentativo referendario fallito, Dublino ha dato luce verde al Trattato. All’appello mancavano così Varsavia e Praga. L’altro euroscettico, il polacco Lech Kaczynski, irritato per la sospensione americana del progetto che prevedeva il dislocamento dello Scudo spaziale Usa nel suo Paese, non ci ha pensato due volte ed ha firmato il documento già approvato dal Parlamento nazionale.
L’imprevedibile Klaus si è, pertanto, ritrovato da solo a difendere gli interessi o a combattere le paure della “Nuova Europa”. Gli ex satelliti del Cremlino avevano accettato di aderire all’Unione europea nel maggio 2004 soprattutto per sfuggire alla secolare infelice situazione geostrategica con i russi terribilmente troppo vicini. Il loro timore, reso spesso pubblico, è che non si uscisse da un meccanismo opprimente per entrarne in un altro. Nessuno voleva sostituire Bruxelles con Mosca dopo la gioia per la libertà ritrovata con il crollo del Muro di Berlino.
La speranza, quindi, è stata per anni che i tentativi di rafforzare politicamente i Ventisette naufragassero. Va bene area economica – commerciale – democratica e di diritto, ma niente unione politica. Sarebbe calzata a pennello anche una Comunità a due velocità. In questi Paesi lo scontro è stato generazionale e sociale: i giovani col cuore e la mente verso l’Europa, gli anziani col pensiero all’America.
Klaus vuole ufficialmente garantirsi contro possibili rivendicazioni dei tedeschi dei Sudeti, espulsi nel 1945, e richiede delle modifiche sul capitolo dei diritti fondamentali. I polacchi provarono a sollevare un’analoga questione l’anno scorso, poi desistirono. Bruxelles seccamente gli ha risposto di non creare “problemi artificiosi”. Senza il Trattato di Lisbona, già di per sé lacunoso, si va verso la paralisi dell’Ue e nessuno è disposto ad accettare una simile situazione.
I tempi per la firma di Klaus sono stretti. Nelle mani del presidente ceco si gioca il destino della mini-Costituzione continentale, già approvata dal Parlamento nazionale. Il 27 ottobre la Corte costituzionale si riunirà a Praga per sentenziare se il Trattato non contraddica la Legge fondamentale nazionale. Il 29, due giorni dopo, il summit dei leader europei. L’incubo per Bruxelles è che si debba riaprire il processo di ratifica in tutti i Ventisette membri.
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