E’ una lotta impari senza veri candidati che possano impensierire il netto favorito, Vladimir Putin. Il capo del Cremlino può contare non solo sulla sua popolarità ma anche su un’esposizione mediatica senza precedenti con in più l’intero sistema politico – economico a radunare voti per lui.
All’unica personalità realmente in grado di metterlo in difficoltà, sollevando temi scomodi, ossia il blogger Aleksej Navalnyj, non è stato nemmeno concesso di presentarsi alle elezioni per una passata condanna giudiziaria, contestata in Occidente.
Oltre a Putin sono sei gli uomini candidati, una sola è la rappresentante del “gentil sesso”. A loro sono rimaste le briciole, ossia i pochi dibattiti elettorali organizzati in televisione e qualche manifestazione pubblica in giro per il gigante slavo. Spesso, come successo ad Asbesto sugli Urali, i loro sostenitori sono stati costretti ad emigrare nelle periferie ad orari impossibili, poiché le piazze centrali erano chiuse alle dimostrazioni pubbliche per presunte ragioni di sicurezza. Insomma i sette sono dei semplici invitati ad una festa altrui.
Secondo i sondaggi, alle spalle di Putin accreditato di un 70% di preferenze, dovrebbe posizionarsi il comunista Grudinin con il 14% dei consensi, seguito dall’ultranazionalista Zhirinovskij con il 10% e dal liberal-riformista Javlinskij con il 2%. La “show girl” Ksenija Sobchak è sembrata più che altro una meteora in un universo che almeno per ora non le appartiene.
Il 57enne direttore di un sovkoz – le vecchie fattorie di epoca sovietica – Pavel Grudinin ha avuto un successo superiore alle attese, perlomeno stando ai commenti che si leggono sul web e sui vari forum. La sua ricetta è quella tradizionale dei comunisti russi: le proprietà private in mano agli oligarchi devono essere rinazionalizzate e si devono alzare le tasse ai ricchi (altro che flat tax al 13%!) per sostenere lo stato sociale. Peccato, però, che in tal caso i magnati se ne andrebbero definitivamente dal Paese, in cui soltanto già lavorano, poiché le loro famiglie vivono all’estero da anni, godendosi i capitali esportati.
Il 71enne Vladimir Zhirinovskij appare all’ultima sua partecipazione ad una grande consultazione elettorale. Il suo astro non brilla più come negli anni Novanta, quando era in grado di ottenere il voto delle masse povere e diseredate russe. Di fatto il leader ultranazionalista appoggia da anni in tutto e per tutto la politica del Cremlino con l’obiettivo di far tornare ad essere la Russia una superpotenza globale. In politica interna Zhirinovskij sintetizza le classiche posizioni populiste, tipiche di queste terre. Negli ultimi periodi l’istrionico politico è diventato una “stella” dei popolarissimi ed inflazionati ‘talk show’. Proprio lui insieme alla Sobchak è stato protagonista dell’unico vero momento di tensione della sonnolente campagna elettorale. I due si sono presi a bicchierate d’acqua in faccia con tanto di insulti pesanti in diretta televisiva.
Il 66enne economista Grigorij Javlinskij – uno degli autori del programma dei “500 giorni” di gorbacioviana memoria per il passaggio all’economia di mercato – partecipa per l’ennesima volta alle presidenziali. Anche questa volta non suscita particolari entusiasmi tra la gente ed il suo risultato finale dovrebbe essere in linea con quelli passati. La sua ricetta è anche qui la solita: lotta alla corruzione, privatizzazioni e ridimensionamento dell’intervento dello Stato in economia. Il problema maggiore è che i liberal-riformisti sono comunemente indicati dal russo della strada come i responsabili dei difficili anni Novanta. Invero la verità è un’altra: era crollata una superpotenza.
La 35enne Ksenija Sobchak – figlia del “mentore” di Putin l’ex sindaco San Pietroburgo, Anatolij – è stata una mezza delusione. Secondo alcuni ambienti delle opposizioni la “show girl” è stata paracadutata dal potere per aumentare l’interesse per questa scialba consultazione ed alzare l’affluenza, che rappresenta il vero grattacapo di Vladimir Putin. La giovane è stata finora un maldestro tentativo di proporre la riforma dell’attuale sistema dal suo interno.
gda
Questo è forse l’ultimo importante anniversario della “ritirata di Russia” con dei testimoni ancora in vita. Settantacinque anni sono già passati da quelle tragiche giornate. Lo storico Alim Morozov è il maggiore specialista russo sull’argomento. Tanti sono i libri, da lui scritti, diventati dei veri punti di riferimento per i futuri studiosi.
“No, non sono cambiati i miei sentimenti su quegli eventi – afferma il direttore del museo di Rossosch, il quale vide tutto con i suoi occhi di bambino di 10 anni -. Ho scritto quanto raccolto nei miei libri. Nulla di nuovo è emerso negli ultimi tempi. Ma attenzione: non si devono permettere invenzioni o falsificazioni. Bisogna raccontare la verità”. E purtroppo certi “addomesticamenti” in Russia sono stati frequenti negli ultimi anni.
Professore, quali sono i ricordi più nitidi che Lei ha?
“All’inizio vi fu la ritirata delle truppe sovietiche, poi il terrore per l’occupazione tedesca, quindi l’arrivo degli italiani. In continuazione vi erano attacchi aerei sia da una parte che dall’altra. Ogni notte, che paura!”
Oggi sono pochi i testimoni rimasti in vita. Lei ha un messaggio da tramandare ai posteri?
“Ritengo che lo storico debba scrivere la verità nei suoi lavori. Lo so, a volte, questo è difficile. Ogni storico utilizza i documenti, che non possono, però, essere considerati tutti come fonti attendibili. Io sono stato fortunato: ho radunato racconti orali dei veterani sovietici ed italiani, ho trovato documenti di prima mano. Ecco perché sono riuscito a rappresentare la realtà del tempo, che io ho vissuto in prima persona da bambino”.
Qualcosa deve essere ancora scritto?
“Ormai è difficile aggiungere qualcosa di nuovo non ancora pubblicato. Sono stati persino desecretati i documenti (sovietici, ungheresi, italiani e tedeschi) presenti nell’archivio militare di Podolskij”.
Che futuro ha il suo museo?
“E’ la domanda più difficile che mi fa. Presto avrò 86 anni e non ho potuto preparare un ricambio generazionale. Il museo è grande 400 metri quadrati, ma avrebbe bisogno come minimo di uno spazio di tre volte maggiore. Le autorità locali non hanno fondi per aiutarci. Ho provato invano a cercare un mecenate. A settembre 2018 l’Associazione nazionale alpini verrà qui in massa alla festa per il 25esimo anniversario dell’edificazione della scuola d’infanzia da loro costruita in segno di pacificazione e fratellanza. Staremo a vedere”.
gda
E’ un anniversario sopportato non tanto celebrato. Nessuna manifestazione ufficiale ha in pratica ricordato uno degli eventi principali della realtà contemporanea, capace di cambiare i destini del mondo.
Già nel 2016 il presidente Putin invitò il Paese a utilizzare le lezioni della storia per rafforzare la pace civile e a non speculare sulle tragedie per propri fini politici o di qualsiasi altro genere.
Questa linea dai toni bassi e dimessi è proseguita per mesi tanto che il portavoce del Cremlino, Dmitrij Peskov, si è lasciato scappare davanti alla stampa internazionale “ma che cosa si deve festeggiare? Spiegatemelo”.
Le ragioni di questa scelta sono molteplici.
In primo luogo, la Rivoluzione d’ottobre è stata per la Russia il prologo alla guerra civile ed alle repressioni, causa di milioni di morti. In estrema sintesi: una tragedia. Allo stesso tempo, però, iniziò l’epoca sovietica che, a costi catastrofici, modernizzò il Paese e lo fece diventare una superpotenza mondiale.
In secondo luogo, analizzare un evento così complesso significa anche parlare delle ingiustizie sociali e delle ineguaglianze durante lo zarismo. Il pensiero correrebbe subito a fare un confronto con la situazione attuale in un Paese ora in crisi, alla ricerca di una propria identità nel mondo globalizzato del XXI secolo. A pochi mesi dalle elezioni di marzo ciò non è affatto auspicale.
Il motivo di questo navigare quasi a vista e a volte zigzagante è che l’attuale società russa continua a vivere sui miti sovietici e nessuno vuole adesso metterli in discussione o scontrarsi con loro.
Per questo, da oltre un decennio il Cremlino ha fatto diventare un po’ artificiosamente il 4 novembre festa nazionale, il Giorno dell’Unità, in cui – in maniera conciliante – si ricorda la cacciata dei polacchi da Mosca nel 1612.
Così è facilmente immaginabile quanto adesso dia fastidio nella “stanza dei bottoni” russi la polemica sul cosa fare del mausoleo di Lenin! Da una parte sono schierati i liberali, la candidata alle presidenziali Sobchak, il leader ceceno Kadyrov (il cui popolo fu deportato da Stalin), e dall’altra tutta la galassia comunista, radunata intorno al segretario del Pc Zjuganov. Le fonti ufficiali, invece, tacciono.
La terza ragione dei toni dimessi per il centenario è la linea politica, adottata da Vladimir Putin in questi anni. Il Cremlino è schierato da sempre ovunque per lo “status quo”. E’ stato così nello spazio ex sovietico contro le “rivoluzioni colorate” (Georgia 2003, Ucraina 2004, Ucraina 2014,) ed all’estero in generale contro le rivolte di ispirazione liberale ed occidentale (Siria 2011, Libia, 2011, Egitto 2011). Ogni manifestazione di dissenso viene considerata a Mosca come un delitto.
Come si sarebbe potuto, in conclusione, celebrare la Rivoluzione d’ottobre?
La risposta è una sola: è meglio far finta di nulla. Se bisogna festeggiare qualcosa, è meglio che sia il 4 novembre.
gda
Dopo lo “spirito di Lubiana” del 2001 con George W. Bush, adesso è venuto il momento della giusta “chimica” e del “dialogo lavorativo” con Donald Trump.
Vladimir Putin è apparso più padrone della scena del collega americano, troppo preoccupato di fare passi falsi e di ingigantire ulteriormente il pericolosissimo per lui “Russiagate”.
Al G20 di Amburgo russi ed americani hanno iniziato una specie di politica reciproca dei piccoli passi per uscire dal presente empasse. Vladimir Putin e Donald Trump hanno tremendamente bisogno l’uno dell’altro e non possono permettersi di perdere altro tempo.
Il russo per far uscire il suo Paese dall’isolamento internazionale post annessione della Crimea e per vincere in carrozza le presidenziali di marzo 2018; l’americano per rilanciare la sua leadership, all’apparenza appannata, in Occidente e di conseguenza avere dei benefici sul fronte interno.
Così i primi passi significativi insieme sono stati il cessate il fuoco in Siria e l’apertura di canali diretti su Ucraina e sicurezza informatica. Chiaramente tutto era già stato accuratamente preparato in precedenza dagli sherpa e i due leader hanno soltanto dato il definitivo placet.
Molto più importante era, invece, mettere le basi di un solido rapporto personale, che potrebbe influenzare gli scenari globali perlomeno per i prossimi tre anni e mezzo.
Non ci si faccia, tuttavia, troppe illusioni. Oggi, rispetto ad allora, la situazione è decisamente molto più intricata con l’orso russo che ha tirato fuori gli artigli per difendere i propri interessi strategici, con la potenza americana in ritirata e con l’emergere di nuove realtà regionali.
gda
Vladimir Putin è certamente il convitato di pietra al G7 di Taormina. Diverse sono le ragioni di tale situazione e queste non dipendono soltanto dalla missiva, consegnata a Sochi una decina di giorni fa al premier Gentiloni, da recapitare ai colleghi del club dei Paesi più ricchi del mondo. Senza l’ausilio russo, è bene non dimenticarsi, non ci possono essere a breve la stabilizzazione del Medio Oriente, una valida lotta al terrorismo internazionale, la completa sicurezza nucleare.
Ma non solo: è soprattutto l’intero Vecchio Continente a rischiare di perdere quell’equilibrio, che ha permesso di vivere sette decenni in pace. In una nota del ministero degli Esteri federale, Mosca afferma che le cause di questa complessa realtà sono “il risultato diretto della linea distruttiva scelta” dall’Alleanza atlantica, che mira ad “ottenere una spregiudicata supremazia politica e militare negli affari europei e mondiali”.
L’invito a fermarsi “prima che sia troppo tardi” della diplomazia federale è ribadito senza giri di parole, anche perché certe “dinamiche tipiche dell’era dello scontro” non portano da nessuna parte. La Russia è dispiaciuta dell’“aumento di truppe” e della costruzione di nuove “infrastrutture” dell’Alleanza atlantica sul suo fianco orientale. Tali scelte, confermate al summit Nato di Varsavia dell’estate scorsa, sono “un’erosione” dei principi espressi nell’Atto Fondativo del rapporto tra Mosca e Bruxelles del 27 maggio 1997. Secondo i russi il primo pericolo che si corre ora è ricominciare la “gara degli armamenti”.
Stando ai diplomatici federali, “il desiderio dell’Alleanza Atlantica di mostrare la necessità della propria esistenza, gonfiando il mito della ‘minaccia dall’est’, ostacola l’unione e gli sforzi dei Paesi nella lotta contro le sfide comuni”. Nel documento si aggiunge anche che “la cosa importante è rendersi conto della realtà e comprendere in modo depoliticizzato i processi moderni, guardando oltre all’orizzonte dell’oggi, non solo negli interessi del ‘club dei Paesi eletti’ ma di tutti i popoli dell’Europa senza eccezioni”.
Non una sola parola viene proferita sulla crisi ucraina, scoppiata nell’autunno 2013, causa della sospensione della Russia dall’allora G8 e delle successive sanzioni politiche ed economiche occidentali. Come si ricorderà, il Cremlino “riunì” la penisola della Crimea – allora territorio sotto la sovranità di Kiev – alla Madrepatria nel marzo 2014. Inoltre non si riesce a far applicare dai separatisti filo-moscoviti gli accordi di Minsk (firmati da Mosca nel febbraio 2015) per la pace in Donbass e Lugansk, dove, nel frattempo, sono morte più di 10mila persone e sono fuggiti quasi 3 milioni di abitanti.
I tempi, però, sono cambiati a livello internazionale. Per i russi, con l’insediamento di Donald Trump alla Casa bianca, è venuto il momento del riavvicinamento all’Occidente e della fine delle sanzioni. Il mondo contemporaneo con le sue sfide globalizzanti non permette una Seconda guerra fredda.
Gda
Vladimir Putin rompe gli indugi e passa, come suo stile, al contrattacco, in un momento in cui si stanno definendo nuovi equilibri internazionali. Il Cremlino ha annunciato un suo inatteso viaggio a Parigi, il 29 maggio, ufficialmente per una mostra, in realtà per incontrare il neocapo dell’Eliseo, Emanuel Macron. La Francia fa parte del Quartetto che negozia la soluzione della crisi ucraina e da lei molto dipenderà la futura politica europea.
Con gli Stati Uniti le relazioni tardano a rilanciarsi. La paura è che la guerriglia contro il presidente Donald Trump possa continuare per tutto il suo mandato. Urgono, però, scelte per rilanciare le relazioni bilaterali ed accordarsi sul Medio Oriente.
Gda
8 -11 marzo (23-26 febbraio vecchio calendario) scoppiano tumulti a Petrograd per protesta contro le carestie di pane e carbone.
Il 10 marzo i battaglioni spediti a reprimere si unirono agli insorti. Non c’erano truppe disponibili. Mentre zar Nicola II era al fronte il regime collassò. I funzionari si nascosero, la polizia si era dissolta. La gente cercò una guida nella Duma.
L’11 marzo i suoi membri più autorevoli ignorarono un decreto imperiale di scioglimento ed il 12 marzo crearono un governo provvisorio con loro esponenti. Il principe Grigorij Lvov, ex presidente dell’Unione degli zemstva e delle città, assunse l’incarico di presidente del consiglio dei ministri e quello di responsabile del dicastero degli Interni. Pavel Miljukov (capo del partito dei cadetti) ebbe il portafoglio degli Esteri, Aleksandr Gluchkov (leader degli ottobristi) quello della guerra, Aleksandr Kerenskij (unico membro socialista della formazione dei social rivoluzionari) quello della Giustizia. In sostanza questo Esecutivo rispecchiava la maggioranza del blocco progressista alla Duma.
Il 15 marzo Nicola II abdicò a favore del fratello Michail, il quale abdicò il giorno seguente.
Prima di uscire di scena Nicola II aveva nominato Lvov primo ministro. Finiva così la dinastia dei Romanov in Russia dopo 304 anni.
Gli Stati Uniti ed alcune potenze europee presero atto positivamente del passaggio di potere e riconobbero il governo del principe Lvov, che, però, si trovò immediatamente a vedersela con il Soviet dei deputati e degli operai di Pietrogrado. Questa assemblea, costituita il 12 marzo, si era insediato nel palazzo della Duma.
Con l’uccisione dell’ambasciatore russo in Turchia Mosca si trova sempre più immischiata nella palude mediorientale. Ma nell’autunno 2015 si pensava ad un intervento rapido, tanto che il 14 marzo 2016 Putin ha annunciato che gli obiettivi in Siria erano stati raggiunti, pertanto era incominciato il ritiro.
La ragione di questa fretta era che il Cremlino non intendeva impantanarsi in una realtà così complessa. La Siria era una specie di merce di scambio per ottenere benefici in Ucraina; ed i vantaggi geopolitici erano a breve termine.
La realtà, però, si sta rivelando diversa. I governativi di Assad sono militarmente più deboli di quanto si pensasse. La seconda caduta nelle mani dell’Isis di Palmira non lascia intravvedere nulla di buono in prospettiva futura.
Per la prima volta la Russia si trova a combattere una guerra lontana dai confini nazionali, dove la continuità territoriale non conta. Per raggiungere la Siria, le navi devono transitare per il Bosforo e con la Turchia i rapporti sono difficili. Per di più storicamente Mosca ha sempre sostenuto i curdi. L’Iran, che si sta riappacificando con l’Occidente, ha permesso per poche giornate l’uso delle basi aeree da parte dell’aviazione federale. Sul fronte terrorista si rischia una nuova stagione di attentati terroristici, se i foreign fighters dovessero lasciare il Medio Oriente.
Sui costi dell’operazione le versioni sono contrastanti, ma essi incidono comunque sul bilancio militare, che ha un forte peso sul sofferente budget statale. Per il pareggio di bilancio serve la quotazione di 69 dollari al barile. Uno dei due fondi di riserva si estinguerà tra 11 mesi.
All’Ue non conviene che la Russia si impantani del tutto in Siria, dove, comunque, fronteggia forze terroristiche. Una Russia troppo debole al suo interno, storicamente, è fonte di instabilità per l’intero Vecchio Continente.
gda
Vladimir Putin è uno dei convitati di pietra al Brexit. Il profilo tenuto dal Cremlino sulla questione è bassissimo, ma l’attenzione è massima. In caso di addio della Gran Bretagna, i nazionalisti russi già pregustano l’indebolimento dell’Unione europea ed il possibile scioglimento del Regno Unito con l’indipendenza della Scozia. Senza far nulla Mosca si potrebbe levare di torno in un colpo solo due fortissimi concorrenti e si concretizzerebbero i gloriosi progetti di egemonia per il XXI secolo.
Nel 2014 con l’allargamento ad Est dell’Ue i Paesi ex satelliti del Cremlino hanno trovato nel polo occidentale un qualcosa di più attraente ed infatti i due Majdan in Ucraina ne sono una conseguenza indiretta. Ora Putin sta tentando di dare una sterzata rispetto a questo corso e contemporaneamente di rientrare nei grandi giochi mondiali.
Appunto, il Grande Gioco, che vide russi e britannici lottare per tutto l’Ottocento, con l’odiata Londra che sbarrò alla San Pietroburgo zarista la strada ai mari caldi del sud. I primi hanno costruito un impero sulla contiguità territoriale; gli altri sul suo modello opposto, transoceanico. Nel Ventesimo secolo la Gran Bretagna ha perso di continuo pezzi, ma la sua influenza, seppur ridimensionata, è rimasta. E i russi non se ne danno pace, visto cosa è successo a loro dopo il crollo dell’Urss. Si è sviluppata una sorta di complesso verso gli inglesi, tanto che, nel 2013 il portavoce del Cremlino definì il Regno Unito “l’isoletta”.
Cosa sia il Vecchio Continente senza un progetto comune lo sanno tutti: basta sfogliare i manuali di storia. Ai campionati di calcio in Francia si è avuto un breve ripasso. “Duecento dei nostri hanno spazzato via migliaia di inglesi”, Putin ha commentato, pur condannando i fatti.
gda
We are a group of long experienced European journalists and intellectuals interested in international politics and culture. We would like to exchange our opinion on new Europe and Russia.