“Due tendenze marcano l’attuale situazione energetica:
la prima è l’estensione e la drammatizzazione delle tensioni e dei conflitti nei quali l’energia appare come un parametro di riferimento. Questo vale per il Medio Oriente, l’Ucraina, la Libia.
La seconda è l’accelerazione delle politiche di adattamento alla nuova realtà geopolitica, economica, scientifica ossia alla transizione energetica.
Quali rapporti di partenariato con la Russia? Il Mediterraneo cerca una propria collocazione: quali sono le sue aspettative ed prospettive?”
Il Club de Nice ne ha discusso per tre giorni.
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Dominique Fache, Energie: du poker menteur à la roulette russe
La Russia alle prese col crollo del prezzo del petrolio ed al tramonto dei suoi futuri progetti.
RSI Audio Min. 13’50” – 17’00
Adesso i capi separatisti filo-russi dell’Ucraina orientale hanno la loro investitura popolare. Potranno giocarsela al tavolo dei negoziati con il governo centrale. Quanto siano state legali o legittime le elezioni nei “distretti speciali” – con uomini in armi ovunque, liste elettorali dubbiose, gente che poteva votare via Internet in modo fumoso – è ben che evidente.
Ma la deformazione della democrazia e dei suoi processi di scelta della classe dirigente è il triste elemento nuovo di questa crisi, già emerso in marzo in Crimea ed in maggio nelle regioni di Donbass – Lugansk.
Dai “distretti speciali” più della metà della popolazione se n’è andata, sfollata in territori sotto controllo di Kiev o profuga in Russia. Chi è rimasto si sta adattando ad una realtà complessa: senza soldi (non vengono pagati né stipendi né pensioni), con poco lavoro, con servizi quasi nulli. Per tre mesi – con la speranza che l’incubo finisca – questi disgraziati hanno atteso la spallata decisiva dei governativi. Adesso guardano disperatamente ai russi, mentre tremano pensando alla possibile scelta di Kiev di chiudere il rubinetto energetico con il conseguente congelamento di edifici civili e delle poche attività produttive ancora in funzione.
Dall’estate scorsa Donetsk e Lugansk si sono riempite di materiale bellico di origine incerta, di mercenari del Caucaso, di personaggi d’armi strani. Sono loro le prossime vittime predestinate dello scontro tra Est ed Ovest, come già successo in passato Abkhazia e sta accadendo in Crimea.
Una soluzione politica è possibile? Quasi sicuramente no. I separatisti sono pronti a menare le mani, almeno questo lo si desume dalle prime dichiarazioni dei “neopresidenti”. I bollenti spiriti si calmeranno per la stagione fredda per riesplodere al disgelo: questa la previsione dei maggiori specialisti.
La guerra in Donbass e Lugansk serve al Cremlino per guadagnare tempo e rimandare la discussione del vero problema tra le due repubbliche slave: ossia la sovranità della Crimea. Vladimir Putin non può cedere ora su questo punto, altrimenti la sua carriera politica terminerà, soprattutto adesso che la crisi economica – provocata in particolare dal crollo del prezzo del petrolio e molto meno dalle sanzioni occidentali – sta iniziando a mordere. Il rublo è in caduta libera, il tasso d’inflazione alle stelle, il Pil russo è sceso a livelli sovietici.
Vi è il forte rischio che il tramonto della stella di Putin provochi il canto del cigno della Russia nel suo ex cortile di casa. E non si sa quanto questo secondo momento sia positivo per la stabilità continentale.
gda
Ogni tanto l’opinione pubblica internazionale scopre l’esistenza di un qualche summit informale che immancabilmente si trasforma in un’ottima occasione per i leader per parlarsi a quattr’occhi al di fuori delle camice di forza rappresentate dalle istituzioni mondiali e dalle visite di Stato.
E’ in queste occasioni che realmente si pongono le basi per la soluzione di questioni spinose e si architettano alleanze più o meno formali da utilizzare successivamente.
A momenti, a Milano, manco gli addetti ai lavori hanno compreso i risultati finali del vertice ASEM Europa – Asia. I leader principali presenti non hanno parlato altro che della crisi ucraina oltre che di problemi bilaterali.
Soltanto prossimamente, quindi, sapremo se l’ASEM avrà fatto centro. A Bruxelles europei – russi ed ucraini dovrebbero chiudere l’eterna partita sulle forniture di gas a Kiev. Il che significherebbe un inverno di stabili approvvigionamenti russi al Vecchio Continente.
E’ bastata la minaccia di Putin, lanciata dalla Serbia, sul pericolo imminente per le consegne di metano per ammorbidire gli europei, che tuttavia non alleggeriranno le sanzioni contro Mosca.
Ma intanto la Russia porta a casa “cash” fresco, vitale in un momento in cui il rublo sta colando a picco, il Pil è vicino alla recessione e le riserve di valuta si sono assottigliate di 50 miliardi di dollari in pochi mesi. Ecco cosa sta costando la campagna di difesa del “cortile ex sovietico” e la mancata riforma dell’economia federale troppo dipendente dal prezzo del petrolio.
A Milano la cancelliera tedesca Angela Merkel era furente per l’ennesimo sgarbo subito dal capo del Cremlino, cronicamente in ritardo. L’incontro bilaterale giovedì sera è stato prima cancellato, poi riorganizzato in fretta e furia per evitare un incidente diplomatico. Questi screzi tra leader sono uno dei punti per comprendere alcune logiche che hanno provocato la crisi ucraina.
I russi continuano a credersi giocatori centrali nel nuovo mondo della globalizzazione, dimenticandosi che i tempi della Guerra Fredda sono finiti da un pezzo ed il loro peso economico-finanziario a livello di Pil è più o meno pari a quello di un Paese come l’Italia.
La differenza nella crisi ucraina è stata finora fatta dalle forti motivazioni di Mosca rispetto a quelle più fiacche euro-americane. Putin si gioca il suo futuro politico, la Russia la sua posizione dominante nell’ex Urss. Bruxelles difende i principi ed il diritto internazionale. Gli ucraini sono invece le vittime sacrificali in questa partita geostrategica.
L’Ue vorrebbe prendere sotto controllo la frontiera russo-ucraina attraverso la quale passano i rifornimenti ai separatisti del Donbass. In un certo senso si duplicherebbe la missione EUBAM, che è presente da anni sul confine ucraino-moldavo dalla parte della repubblica della Transnistria. Figuriamoci, se in questo momento – con elezioni in Ucraina e forse in Donbass – i filo-russi accetteranno la proposta.
Ed in ultimo. Se i separatisti dell’Est terranno loro elezioni il 9 novembre la Merkel già ha promesso fuoco e fiamme. Conclusione: in Ucraina si va verso uno scenario da conflitto congelato, ma non per il freddo!
Giuseppe D’Amato
L’accordo è stato raggiunto in piena notte dopo 7 ore di negoziati. Le misure sono a corollario di quelle già definite il 5 settembre, sempre a Minsk, dal Gruppo di contatto (Ucraina, Russia, OSCE). L’OSCE è supervisore della realizzazione del memorandum, che tenta di dare sostanza alla precedente intesa. Nelle precedenti due settimane la tregua è stata più volta violata con centinaia di morti. Le parti hanno convenuto di continuare lo scambio di prigionieri. Lo status dei territori sotto controllo dei separatisti non è stata discussa.
1. Cessazione dell’uso di armi considerate “comuni”.
2. Stop delle unità militari sulle posizioni in cui si trovano il 19 settembre.
3. Divieto all’utilizzo di qualsiasi tipo di armi ed alla conduzione di operazioni offensive.
4. Nel corso di una giornata dalla firma di detto memorandum, rimozione di armi di calibro superiore a 100 millimetri dalla linea del fronte di almeno 15 chilometri da ambo le parti, in particolare dai centri abitati, in maniera da creare una zona di sicurezza di non meno di 30 chilometri.
5. Divieto di dislocazione di armamenti pesanti ed attrezzature pesanti nei distretti dove si trovano determinati insediamenti abitati.
6. Divieto di installazione di nuovi campi minati sui confini della zona di sicurezza; obbligo di sminare i campi all’interno della zona di sicurezza.
7. Creazione di una no-fly-zone sulla zona di sicurezza sia per apparati interni che stranieri, ad eccezione di quelli dell’OSCE.
8. Dislocazione nella zona di cessazione dell’uso delle armi di una missione monitoring dell’OSCE, compresa nel gruppo di osservatori, nell’arco di un giorno. L’area di cui sopra è divisa in settori, i cui confini sono definiti nel corso della preparazione del lavoro di monitoring della missione di osservatori dell’OSCE.
9. Ritiro di tutti i mercenari stranieri dalla zona del conflitto da ambedue le parti.
A Simferopoli la Procura generale ha confiscato le proprietà della Fondazione (non a scopo di lucro) “Krym”, il cui fondatore è il leader dei tatari di Crimea Mustafà Dzhemiliev, già deputato alla Rada ucraina. Il 16 settembre la sede dell’Autorità tatara era stata perquisita dalla polizia.
I tatari di Crimea non hanno partecipato in massa alle elezioni di domenica 14 settembre in cui sono stati eletti i nuovi rappresentanti locali. Il prossimo capo della Crimea Serghei Aksionov ha negato che ci siano problemi con questa minoranza, che è contraria al ritorno della penisola sotto il controllo di Mosca. La ragione della perquisizione all’Autorità tatara, secondo Aksionov, era la presunta “presenza di letteratura vietata”.
Mustafà Dzhemiliev, a cui non è permesso l’ingresso in Crimea e sul territorio russo per 5 anni, ha definito quanto finora accaduto come “un attacco criminale”. Le ambasciate USA e turca hanno già espresso la loro “preoccupazione” e stanno seguendo da vicino l’evolversi della situazione.
Secondo fonti militari ucraine il Cremlino ha dislocato al confine amministrativo tra la penisola contesa e la terraferma 4mila uomini con a disposizione artiglieria e carri armati.
La guerra civile in Ucraina orientale si avvia a diventare nei prossimi mesi un conflitto dimenticato, mentre i leader internazionali – a parole – continuano a litigare. Dopo la tregua sancita il 5 settembre 2014 a Minsk gli scontri sono diminuiti di intensità, ma si muore lo stesso. Secondo alcuni calcoli dall’inizio del cessate il fuoco hanno perso la vita già una trentina di persone.
Gli epicentri dei combattimenti sono sul mare di Azov tra Mariupol e Novoazovsk – gli abitanti del centro portuale odono i colpi in lontananza – e nei pressi dell’aeroporto di Donetsk, ancora nelle mani dei governativi. A Gorlovka l’ordine pubblico è precario. A Lugansk l’elettricità manca in alcuni quartieri dopo che una centrale è stata centrata da un colpo di mortaio.
Secondo l’Agenzia per gli affari umanitari dell’Onu all’11 settembre 2014 sono morte 3.171 persone (tra cui 27 bambini), 8.061 (non meno di 56 bambini) sono i feriti. OHCHR/WHO. Gli sfollati in Patria sono 262.977, quelli all’estero 366.866.
“E’ stato l’ultimo addio all’Unione Sovietica”. Così il presidente ucraino Petro Poroshenko in un discorso al Parlamento canadese, prima di volare a Washington dal collega statunitense Barack Obama. La ratifica del Patto di Associazione con l’Unione europea è per Kiev il passo decisivo verso un futuro diverso.
I separatisti dell’Est non sono d’accordo ed insistono per l’indipendenza nonostante la maggiore autonomia ottenuta sulla carta. Le elezioni locali, programmate per il 7 dicembre, dovrebbero essere un nuovo spartiacque nelle intenzioni del governo centrale. Il dubbio è, però, se queste consultazioni si terranno mai.
In Russia, intanto, la situazione economica inizia a preoccupare. Il dollaro e l’euro hanno segnato nuovi record contro il rublo anche per il deprezzamento sensibile del petrolio sui mercati internazionali. 105 è il valore minimo per Mosca per salvare il proprio budget statale. “No al panico”, è la parola d’ordine.
A Minsk Ucraina, Russia ed OSCE hanno siglato un’intesa per il cessate il fuoco. L’obiettivo finale è quello di realizzare un piano di pace in 14 punti. I rappresentanti dei separatisti filo-russi erano presenti con uno status simile a qualcosa come osservatori. Kiev non ha così avuto necessità di riconoscerli formalmente.
PIANO PACE Poroshenko
Il tempo delle operazioni militari sta finendo per l’avvicinarsi dell’inverno; è venuta l’ora di una tregua fra gli ucraini; Mosca si prepari ad un serio negoziato.
È questo il messaggio recapitato a Kiev personalmente da Angela Merkel prima del summit a Minsk tra europei ed ex sovietici. In estrema sintesi, le parti in causa facciano un passo indietro e diano una chance alla pace. I presidenti russo Putin e ucraino Poroshenko avranno l’occasione di parlarsi a quattr’occhi o alla presenza di mediatori. Che sfruttino l’occasione!
La cancelliera tedesca è stata chiarissima. Primo: l’Ucraina ha bisogno di “decentralizzare i poteri dello Stato” in modo da fornire garanzie alle regioni dell’Est, popolate da una maggioranza russofona. Secondo: Berlino e l’Unione europea doneranno “500 milioni di euro per l’immediata ricostruzione”. Terzo: non verrà riconosciuta l’annessione della Crimea da parte del Cremlino. Quarto: se la situazione non migliorerà rapidamente “non sono escluse nuove sanzioni” contro la Russia, alla quale non verranno fatte concessioni, poiché la crisi è troppo pericolosa. Nelle settimane passate la Merkel ha definito Putin un uomo che vive “in un altro mondo”.
Berlino è in realtà preoccupata che con l’approssimarsi della stagione fredda Mosca possa iniziare a giocare con le forniture del gas. L’Unione europea dipende per un 30% circa del suo fabbisogno dalla russa Gazprom. Approssimativamente l’80% di questi approvvigionamenti transitano in Ucraina. Per ora le reazioni anti-occidentali del Cremlino sono state spuntate e ad uso della propaganda interna.
Sul piano militare i governativi di Kiev hanno riconquistato gran parte delle due regioni ribelli, costringendo i separatisti ad asserragliarsi nelle tre città di Donetsk, Gorlovka e Lugansk. Non riescono per ora solo a sigillare la frontiera per evitare l’arrivo di uomini freschi e armi in soccorso.
Kiev non pare, tuttavia, avere unità speciali sufficienti per snidare in fretta nei centri urbani quelle poche migliaia di guerriglieri delle due Repubbliche popolari presenti.
E il tempo, adesso, gioca contro di lei: l’autunno e il rigido inverno sono alle porte. Gran parte della popolazione è fuggita dalle zone del conflitto: la sua stragrande maggioranza è ospite di parenti o amici; in percentuale in pochi sono nei campi profughi. Le vacanze, forzatamente cominciate a giugno, devono finire, anche perché i soldi iniziano a scarseggiare.
La gente, sia a Lugansk che a Donetsk, non ne può più: vuole la fine della guerra civile. I pochi che avevano dimostrato supporto per i separatisti, si sono diradati. I ribelli stanno distruggendo le infrastrutture per provocare una crisi umanitaria, che, per il momento, non esiste a Donetsk, ma si intravede a Lugansk città. Quella è una delle poche carte restate loro in mano.
A Minsk, in conclusione, vi sarà il tentativo di trovare una soluzione, facendo uscire tutti dalla crisi con la faccia pulita…o quasi.
Giuseppe D’Amato
La tragedia dell’irresponsabilità delle leadership, degli Stati che perdono il loro ruolo guida nella comunità internazionale, dei nuovi membri Ue che utilizzano la “casa comune europea” come un condominio per saldare vecchi conti col passato sovietico. Queste sono solo alcune delle componenti che hanno concorso a provocare l’abbattimento del Boeing malese oltre al permesso di far volare un aereo civile sopra ad una zona di guerra.
Adesso siamo di fronte al classico “casus belli”. Proprio nell’anno in cui si è ricordato con terrore l’attentato del 28 giugno 1914 a Sarajevo. Un incendio, per ora limitato ad un paio di regioni, potrebbe diventare gigantesco se chi di dovere non si ergerà a pompiere.
La guerra del Donbass e di Lugansk, nella terribile realtà dei fatti, non interessa quasi a nessuno. Era già un conflitto dimenticato dai grandi mass media mondiali. La Russia ha perso da un pezzo la partita di creare la “Novaja Rossija”, una fascia che dal suo confine arriva fino ad Odessa. Gli occidentali tremano invece al pensiero di iniziare a spedire miliardi in serie per riconvertire un’economia locale non concorrenziale con i livelli europei. Restano solo i governativi ucraini che a fatica non riescono ad avere la meglio di 10-12mila miliziani, rafforzati da abili professionisti venuti da fuori.
Ora il dramma del Boeing, proprio mentre la diplomazia attendeva stancamente il ritorno del Donbass e di Lugansk sotto l’egida di Kiev per aprire il vero negoziato.
Il nocciolo del problema è rappresentato dal futuro della Crimea, dai rapporti russo-ucraini, da quelli russo-europei ed americani. Che cosa si vuole fare? Isolare Mosca?
L’obiettivo finale, ci raccontavano diplomatici occidentali, è quello di ridimensionare la Russia geopoliticamente ed economicamente. Il progetto euroasiatico – Europa più Russia – per il mondo globalizzato del XXI secolo è fallito. Ecco perché il Cremlino ha volto lo sguardo verso la Cina, che timorosamente ha accettato il corteggiamento, non dimenticando tuttavia la sua complessa relazione con gli Stati Uniti. Le forniture russe al Vecchio Continente nell’arco di 2-3 anni verranno ridotte a vantaggio degli approvvigionamenti di “shale” gas e petrolio americano. Immaginabili le conseguenze per il budget di Mosca!
Al momento solo tanta intelligenza e calma servono per uscire da questa complicatissima situazione. L’immediata tregua fra le parti in conflitto e l’inizio di serie trattative appaiono indispensabili. Ma per evitare di discutere sul nulla sono necessari atti politici da parte di Kiev con la definizione di un documento – da far entrare nella futura Costituzione – in cui vengano definiti i poteri delle autonomie locali e vengano accordate garanzie sull’uso delle lingue.
Ma perché poi la Nato non dichiara una volta per tutte che l’Ucraina non sarà suo membro per i prossimi 50 anni? E che i suoi piani anti-missilistici in Europa coinvolgeranno in futuro anche la Russia, non appena raggiungerà livelli più democratici interni?
A Vladimir Putin non resterà così che prendere atto che il mondo con le sfere di influenza non esiste più.
Giuseppe D’Amato
Il vento è cambiato in Ucraina. Con la scelta di un presidente, legittimato dall’investitura popolare addirittura senza il ballottaggio, il presunto vuoto di potere a Kiev è stato colmato. La Russia ha per questo, almeno parzialmente, cambiato il proprio approccio alla crisi, dopo aver ritirato le truppe dalla frontiera la settimana prima delle elezioni.
La fase – definiamola “militare regolare” -, è per il momento chiusa. Invadere “ufficialmente” il Donbass e la regione di Lugansk sarebbe un inutile suicidio politico – diplomatico. Mosca erediterebbe realtà socio-economiche difficilissime, che necessitano di rilevanti investimenti finanziari. Che ci pensi l’Europa a prendersi un tale fardello!”
Il Cremlino ora mira ad incassare gli oltre due miliardi di dollari di forniture di gas non pagate dagli ucraini, che, dal canto loro, sono disposti sì a saldare il conto, ma soltanto in cambio di un futuro prezzo equo. Altrimenti Kiev si rivolgerà al Tribunale arbitrale di Stoccolma e la Gazprom sarà costretta ad aspettare i suoi soldi ancora chissà quanto.
La Russia ha adesso non poco da perdere: il vantaggio accumulato nelle settimane post deposizione di Janukovich è finito. Ecco la ragione delle timide aperture diplomatiche di queste ore. Mosca, però, non vuole mediatori occidentali tra i piedi. La ragione è semplice: gli europei hanno colpe enormi nello scoppio della crisi; i ministri degli Esteri polacco, francese e tedesco hanno garantito il 20 febbraio scorso un accordo per la sopravvivenza politica di Janukovich, sconfessato dagli eventi dopo manco una notte.
La diplomazia russa ha quindi iniziato una mini-offensiva con contatti a più livelli. Il presidente Putin ha parlato al telefono con Matteo Renzi. L’Italia avrà dal primo luglio la presidenza di turno semestrale dell’Ue. Il Cremlino si attende un aiuto dagli storici partner per uscire da questo pantano.
Giuseppe D’Amato
We are a group of long experienced European journalists and intellectuals interested in international politics and culture. We would like to exchange our opinion on new Europe and Russia.